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In piazza Cordusio, fuori da Starbucks la fila di clienti è un continuo ininterrotto che avanza un passo alla volta, e sono già due settimane dall’inaugurazione di questo primo negozio italiano del grande gruppo americano del caffè che il giorno dell’apertura ha letteralmente paralizzato il centro di Milano. Un successo. «Presto apriremo altri quattro punti vendita a Milano, sui 200-300 metri quadri ciascuno. Vedremo allora se il brand può essere competitivo e se interessa le persone». È prudente come il solito, pur se visibilmente soddisfatto, Antonio Percassi, l’imprenditore che ha permesso l’arrivo di Starbucks in Italia. «Howard Schultz (ceo del gruppo Usa, ndr) ha voluto portare qui il loro nuovo modello, una vera fabbrica da cui parte il caffè per tutti gli Starbucks d’Europa e un concetto del negozio che punta a un innalzamento di gamma».
Insomma, tutto bene. Ma una storia di successo non rappresenta il Paese. E, infatti, quando gli si chiede un giudizio su come vede l’economia italiana il tono cambia. L’economia — risponde — «dipende dalla politica e in questo momento tutte le istituzioni internazionali stanno guardando l’Italia con attenzione. Se parli con le banche o con i fondi internazionali ti dicono “aspetta un attimo, vediamo di capire come andrà a finire”. C’è stata una grande frenata». Insomma, Percassi è preoccupato. «Tutti gli imprenditori lo sono — dice —. È un periodo delicato per l’Italia. Molto delicato. Speriamo che vada tutto bene».
La capogruppo
Sessantasei anni, sei figli di cui cinque lavorano in azienda (e per questo è in corso da tempo la riflessione su un riassetto che, «giustamente, metta tutti a posto in modo corretto come avviene in ogni famiglia»), l’imprenditore guida un gruppo che controlla tramite una holding che ha chiamato Odissea, anche se il percorso di questo ex calciatore bergamasco è stato, al contrario, piuttosto lineare.
Dopo aver favorito l’ascesa dei marchi italiani, in primis Benetton da cui è partita la sua storia di imprenditore, oggi Percassi è l’interlocutore favorito dei grandi brand internazionali. «Abbiamo acquisito know how e abbiamo una buona reputazione, finora. Gli amministratori delegati e i direttori generali delle multinazionali si conoscono tutti e parlano tra di loro continuamente. Si passano parola. Ma se sbagli, sei finito». Starbucks è solo uno degli ultimi che ha affrontato l’Italia insieme a Percassi. Lo stesso clamore aveva suscitato il primo negozio della spagnola Zara che ancora oggi, pur apprestandosi a festeggiare la maggiore età dall’esordio in Corso Vittorio Emanuele a Milano (era il 2001), è considerato uno dei migliori nel mondo dell’imprenditore Amancio Ortega, il fondatore di Zara, che di punti vendita ne ha qualche decina di migliaia nel globo. E, poi — e siamo ai giorni attuali — Lego, Nike, Victoria Secrets (un nuovo grande negozio sarà aperto entro il 2019), Wanagama… Un elenco che di anno in anno si allunga sempre di più.
Alle porte di Milano, a Segrate, per esempio sta per partire la costruzione del più grande centro commerciale d’Europa dell’inglese Westfield. Il via libera a costruire è arrivato il mese scorso, in agosto, dopo dieci anni di riunioni e documenti. Nel frattempo, però, sono cambiati alcuni governi e quello in carica vuole, tra l’altro, che i centri commerciali chiudano la domenica. Il progetto di Segrate potrebbe subire cambiamenti? «Per ora non abbiamo segnali, speriamo di no». Certo, questo, per Percassi, «è un problema devastante. Perché chiudere un centro commerciale quando le stazioni, gli aeroporti, ristoranti, i negozi di centro città, tutto è aperto? Il mondo sta andando in una direzione, non lo si può fermare… E come si può dire che Amazon non consegni la domenica ma il lunedì? Amazon, poi, che è il vero concorrente della distribuzione, potendo fare sconti quando vuole, mentre noi per i saldi dobbiamo chiedere le autorizzazioni e seguire un percorso preciso».
Le chiusure domenicali secondo Percassi porteranno «inevitabilmente» licenziamenti. «Un centro — spiega — realizza il 20-25% del suo fatturato la domenica e, se cambieranno le regole, dovrà trovare il modo di pareggiare i conti. I dipendenti lavorano la domenica a rotazione, una al mese, a fronte di un posto di lavoro garantito, oltre che di un maggior guadagno. Solo Westfield ha dichiarato che a Segrate ci saranno assunzioni per 18-20mila persone. Non capisco». Ma il punto non sono solo le chiusure domenicali. «È che l’economia è determinata molto dalla politica» e le scelte e gli annunci del governo stanno destando sconcerto.
Uomo restio ad apparire, Percassi non rilascia interviste da anni.Rarissime anche quelle sul calcio che pure va in scena ogni settimana e lui è proprietario dell’Atalanta. Alla distribuzione si è avvicinato proprio da atleta. Giocava come terzino e, quando la squadra di Bergamo andava in ritiro, al cinema con i compagni preferiva le vie principali delle città «per vedere come vive la gente». È durante quelle trasferte che incrociò l’allora fenomeno Benetton. «Vedevo le file davanti ai negozi. Ho deciso di investire tutto quello che avevo risparmiato con il calcio nell’apertura del primo Benetton a Bergamo. Avevo 23 anni».
Il pallone
Ha lasciato il calcio attivo senza rimpianti. «Qualche mese dopo il mio ritiro sono venute tre-quattro squadre a chiedermi di rientrare, ma durante il colloquio con una abbastanza importante ho capito che non mi interessava più». È andata bene. La sua Odissea nel 2017 ha avuto un fatturato consolidato di 805 milioni di euro con un margine operativo lordo di 94, mentre il risultato netto ha risentito dei problemi di Kiko subito affrontati (articolo a fianco). Nell’epoca di Internet, Percassi crede ancora fermamente nella distribuzione fisica. «Lo sviluppo deve per forza essere fatto tramite un negozio fisico, il mercato ci sarà sempre. Poi, insieme, serve l’immagine, la comunicazione, il prodotto, l’organizzazione della struttura, l’integrazione con il mondo digitale, i servizi». Perché «oggi il consumatore vuole essere coccolato, messo nelle condizioni di pagare con le carte di credito, di poter operare tramite lo smartphone. Il negozio di Nike che abbiamo inaugurato settimana scorsa, per esempio, garantisce dalla possibilità di cambiare gli acquisti fatti on line al recapito a casa entro due ore di quanto comprato in negozio. Un mondo di servizi infinito». Se un negozio funziona, «lo vedi nei primi minuti dall’apertura».
Non tira più il pallone, ma il calcio è rimasto la sua passione. Quella che «ti fa fare cose che per un’altra azienda non faresti mai» a causa della pressione dei tifosi, della stampa. E se «niente è incedibile», tra le tante società che fanno capo a Odissea, l’Atalanta è l’ultima che potrebbe essere venduta. «Non ci abbiamo mai pensato». Certo, anche il calcio è un mondo completamente cambiato. I diritti tv e i procuratori hanno stravolto il rapporto tra società e calciatori. «Anche ai miei tempi essere un calciatore era un bel vivere, ma per fare un accordo si parlava cinque-dieci minuti con il presidente o l’allenatore che ti diceva “ti do questo” e tu lo prendevi. Erano contratti di anno in anno, se andavi bene eri confermato, altrimenti toccava a te trovare una squadra. Non come adesso, contratti di tre, cinque, dieci anni… Ma è un altro mondo a livello internazionale, con l’arrivo in Europa dei russi, dei cinesi, gli arabi. Squadre come il Chelsea, il Paris Saint Germain, il Manchester. È giusto così».
E l’Atalanta? «Posso solo dice che speriamo di salvarci. I miei lo sanno, lo dico sempre». Intanto, conferma «piena fiducia in Gasperini, abbiamo appena rinnovato il contratto, rimarrà con noi», mentre sull’Europa League appena iniziata dice «siamo usciti immeritatamente, certo che sono dispiaciuto!» Ma intanto in un calcio che pensa e parla sempre più straniero, lui investe sui giovani italiani: «Penso sia importante e nel nostro Paese ce ne sono molti».
*L’Economia, 24 settembre 2018