Il Pd sta vivendo una fase piuttosto travagliata. Dopo la sconfitta del 4 marzo — preceduta da quelle al referendum costituzionale e alle amministrative — la bussola è sembrata persa, con un partito che non è riuscito a riflettere sulle proprie profonde difficoltà, con una situazione non chiara nel gruppo dirigente, anche per la posizione ambigua di Matteo Renzi, dimissionario ma non del tutto. La recente assemblea nazionale, ha perlomeno fatto alcune scelte che aprono la strada al congresso — e alle primarie per la scelta del segretario — prima delle Europee, con la conferma di Maurizio Martina alla guida del partito.
Abbiamo quindi cercato di verificare la situazione del partito, la sua capacità di fare opposizione, i campi a cui guardare (prevalentemente a sinistra o aprendo a tutti gli elettori che combattono populismo e sovranismo?), ma anche, naturalmente, a quelli che potrebbero essere gli esiti delle primarie. Per ora un test ipotetico, poiché l’unico candidato in campo è Nicola Zingaretti, ma utile a capire i rapporti di forza.
Le difficoltà del Pd sono evidenti per tutti gli elettori: quasi il 60% ritiene che non stia facendo nessuna opposizione, al contrario solo il 25% vede un efficace contrasto al governo Conte. Percentuali che migliorano un po’ tra gli elettori del Pd, dove l’efficacia dell’opposizione sale a quasi il 40% ma dove comunque la maggioranza assoluta non vede un’azione apprezzabile. Questo è il frutto non solo dell’afasia degli esponenti del partito, ma è in parte riferibile al tema del rapporto con il M5S, che ha diviso il partito sia in fase di discussione per la formazione del governo, quando si scelse, con molti distinguo interni, di non aprire un tavolo di trattative.
Il tema delle primarie rimane centrale, per un partito che ne ha fatto il proprio mito fondativo. L’ex segretario Renzi aprendo, pur se da tempo dimissionario, l’assemblea nazionale, di fronte a mugugni degli astanti, ha detto che la minoranza perderà ancora il congresso. Ma è proprio così? Dai nostri dati sembrerebbe di no. Abbiamo infatti testato un ipotetico confronto tra Zingaretti, come detto l’unico candidato oggi in campo, e Renzi, che al momento non è dato di sapere se si ricandiderà, ma rimane senza dubbio la personalità di maggior rilievo. I risultati danno l’ex segretario nettamente perdente tra chi esprime interesse per le primarie, con una proiezione sui voti validi, di 57 punti per Zingaretti e di 43 per Renzi. Sembra quindi che la capacità attrattiva di Renzi sia sensibilmente ridotta anche nell’elettorato più vicino. Ricordiamo che nelle ultime elezioni primarie tenutesi lo scorso anno, Renzi ottenne poco meno del 70% dei suffragi. L’incapacità di analizzare le difficoltà e le sconfitte, di elaborare una nuova proposta anziché guardare costantemente al passato e alle cose fatte (molte delle quali non riconosciute dai cittadini) e, soprattutto, la percezione di una parte consistente dell’elettorato che il premier non si fosse fatto carico delle difficoltà e dei disagi delle fasce meno protette, tutte queste ragioni hanno portato a un ritiro della fiducia che sembra non superabile.
Zingaretti vede invece crescere il proprio apprezzamento, tanto che tra gli elettori Pd l’indice di gradimento passa da circa il 70 a circa l’80 in tre mesi. Tuttavia il candidato non ha ancora un profilo del tutto definito: alcuni pensano che sia semplicemente un ritorno al passato, alle vecchie tradizioni di area Ds, altri aspettano segnali di rinnovamento e apertura, le sue prime uscite sono orientate a un allargamento del fronte che richiede però una migliore definizione strategica e programmatica. Il voto per lui è quindi soprattutto un voto per chiudere una fase che appare superata. Ricostruire un campo non sarà semplice e i tempi non saranno certamente brevi.