Nelle ultime settimane non c’è stata parola più diffusa, anche a livello aziendale, di «coronavirus». Lasciando le implicazioni mediche ai professionisti del settore proviamo, per quanto possibile, a ragionare su quelle economiche e a darne una lettura dal punto di vista organizzativo. In primis, quella di Covid-19 non è «l’epidemia della globalizzazione»: da sempre le malattie si sono diffuse con il commercio e i viaggi. E se la quantità di persone che si sposta è aumentata, così come la velocità con cui lo fa, allo stesso tempo sono migliorate le misure igieniche e gli strumenti di prevenzione.
La differenza rispetto al passato, eventualmente, è legata allo stretto legame di connessione che molte supply chain hanno a livello globale: sono pochissime le aziende europee che non dipendono da fornitori orientali, o che non hanno in Cina un importante mercato di sbocco. Nel frattempo, il virus è arrivato anche in Europa e, dal punto di vista business, si prospettano probabilmente tre scenari. Il primo: l’epidemia verrà tenuta sotto un controllo tale, in Cina, da permettere la riapertura delle fabbriche. Il rallentamento di queste settimane impatterà sulle nostre aziende, ma tutto sommato in maniera limitata e prevalentemente in termini di mercato. Male, ma non malissimo, insomma. Secondo scenario: la riapertura delle strutture produttive in Cina ritarderà a tal punto da comportare uno stop nella fornitura di materie prime e componenti alle imprese europee e, dunque, la necessità per queste ultime di fermare a loro volta la produzione, con le evidenti ripercussioni a livello sociale ed economico. Terzo scenario: anche in Occidente il virus si diffonderà a livello tale da rendere necessaria la chiusura di uffici e fabbriche a prescindere dalla presenza di ordini o componenti.
Tralasciando quest’ultima, semiapocalittica ipotesi, vale la pena soffermarsi sulla seconda. È evidente che le più colpite sarebbero le aziende le cui reti di fornitura dipendono strettamente dal Far East; e sono molte le organizzazioni che hanno scelto di affidarsi a produttori localizzati in low cost countries. Il motivo è evidente: i bassissimi prezzi unitari dei componenti. Attenzione però: «prezzo», non «costo». Se si sommano tutti i fattori che, lungo il processo, contribuiscono al costo totale, spesso il risultato ribalta ciò che l’intuito suggerirebbe. E questo anche senza arrivare agli estremi di questi giorni, in cui la fragilità del sistema diventa evidente a tutti. Le soluzioni? Valutare le alternative di acquisto non solo sulla base del prezzo unitario, ma del costo di processo nel medio-lungo periodo, lungo tutte le dimensioni. E usare politiche di risk management che tengano conto dell’impatto dello stop di supply chain così difficili da controllare.
*Partner e amministratore delegato di Auxiell
L’Economia, 2 marzo 2020