Il patrimonio degli italiani è sempre più diviso in due. Le risorse delle dieci famiglie più ricche equivalgono a quelle di 18 milioni di italiani.
Pochi altri tratti definiscono gli italiani come la loro ricchezza familiare. Questo è un Paese di padri, madri, zii e nonni dediti al risparmio, in misura diseguale e non solo fra i suoi diversi ceti. Con il tempo le disparità patrimoniali sono emerse anche fra le diverse parti dell’economia nazionale: uno Stato profondamente indebitato, aziende spesso dotate di scarsi capitali propri, ma famiglie più ricche (e meno gravate dai mutui) di quelle che guadagnano in modo comparabile in Germania, in Francia, in Gran Bretagna o negli Stati Uniti.
Una società di formiche che accettano di vivere in uno Stato ridotto alle condizioni di cicala: se questa è l’immagine che l’Italia ha di sé, forse è ora che cambi. Ma non perché i problemi del debito pubblico stiano diventando meno gravi. È l’altra parte dell’equazione a vivere una metamorfosi in profondità. L’ultima Indagine sui bilanci delle famiglie pubblicata il mese scorso dalla Banca d’Italia ha seminato un indizio: i circa 20 mila residenti inclusi in quel sondaggio hanno testimoniato — nel complesso — di una perdita di valore dei propri averi.
È a partire da qui che il Corriere ha condotto un’inchiesta su come sia cambiata in questi anni la ricchezza degli abitanti del Paese, suddividendo questi ultimi in venti gruppi sociali diversi: dai nuclei familiari pressoché nullatenenti (in media, 524 euro di risparmio per abitante) alle dieci famiglie più ricche del Paese, quelle nelle quali ogni componente può contare mediamente su un patrimonio di circa un miliardo. I dati sono quelli ufficiali: dalle attività finanziarie nette delle famiglie registrate dalla Banca d’Italia, alle attività «non finanziarie» (perlopiù, immobili) dei quali dà conto l’istituto statistico Istat. In totale, nel 2016, tutto questo rappresenta una ricchezza familiare netta da 5.268 miliardi. Equivale a oltre tre volte il reddito nazionale e a quasi due volte e mezzo il debito pubblico.
Queste grandezze però non dicono nulla di ciò che conta veramente per un italiano che guadagna, risparmia e almeno ogni cinque anni elegge il Parlamento: come questi numeri sono cambiati per lui, o lei. In realtà lo hanno fatto in modo drastico, in entrambe le direzioni. Chi aveva meno all’ingresso nella Grande recessione, fra il 2006 e il 2016, ha visto i propri piccoli risparmi venire falcidiati ulteriormente; ciò è vero per gran parte degli italiani, ma è accaduto con tanta maggiore intensità quanto più le famiglie appartenevano a gruppi sociali meno abbienti. Chi si trova nella parte più bassa della distribuzione dei patrimoni familiari — il secondo ventesimo — ha visto questi ultimi ridursi in proporzione oltre quattro volte più dei ceti medi. Più si era patrimonialmente in basso nel 2006, più si è perso terreno. Al contrario, all’estremità opposta, solo un gruppo ha visto la propria ricchezza aumentare in fretta in questi anni: le dieci famiglie già più ricche, quelle classificate da Forbes perché nel 2016 contavano averi per 86,4 miliardi di euro nel complesso. Nel 2006, la loro ricchezza equivaleva a quella dei 14 milioni di residenti in Italia meno abbienti; nel 2016 è pari a quella di quasi 18 milioni di residenti. Dieci famiglie valgono patrimonialmente come un terzo del Paese.
Non è stato un trasferimento di ricchezza da chi non ha a chi ha. È tutto più complesso, perché riguarda il rapporto degli italiani con l’esterno: con i mercati mondiali e la globalizzazione. I più ricchi ne hanno tratto quasi solo benefici, i meno abbienti quasi solo gli svantaggi. Gli italiani più facoltosi di oggi infatti non rappresentano un’élite di parassiti e redditieri, ma in gran parte esportano prodotti competitivi che il resto del mondo vuole comprare: il cioccolato Ferrero, gli occhiali di Leonardo Del Vecchio, gli elettrodomestici De’ Longhi, la moda di Giorgio Armani, le caramelle Perfetti. Dal 2006 al 2016 il patrimonio netto di questo gruppo di 10 famiglie è esploso da 46 a 86,4 miliardi, più 72% anche stimando l’erosione di valore da inflazione.
Il secondo 5% di famiglie meno abbienti (il primo 5% possiede solo debiti netti) ha visto i propri risparmi crollare del 63% in termini reali; il terzo 5% del 51%, e così via. La caduta è progressivamente più profonda per il 30% degli italiani più poveri: spiazzati dalla crisi finanziaria globale e magari dal trasferimento del loro lavoro verso la Slovacchia o la Cina — spesso senza casa di proprietà — questi italiani hanno consumato i pochi risparmi per vivere. Intanto i ceti medi e elevati vedevano il valore del proprio patrimonio diminuire del 15% circa: un’erosione di valore reale pari a quella determinata dall’inflazione. Molti in questi strati medio-alti hanno continuato a risparmiare, sì, ma il valore delle loro case in media è continuato a scendere: quasi inevitabile, in una nazione dove la crisi demografica, la frenata dell’immigrazione e l’emigrazione dei giovani riduce pian piano la domanda di spazi abitativi un po’ come la goccia scava la roccia.