La domanda è legittima: quando finisce? Quando si tocca il fondo del pozzo di Carige che vive una crisi lunga perlomeno otto anni e che in questo periodo ha bruciato miliardi di euro, aziende, azionisti e amministratori delegati? Se il Monte dei Paschi di Siena ha dovuto sopportare l’entrata dello Stato nel proprio capitale, a Genova cosa serve ancora per mettere la parola fine al disastro innescato dalla cinquantennale gestione di Giovanni Berneschi e poi continuato almeno dal 2010 a oggi in un gioco di scatole cinesi ognuna capace di contenere un nuovo buco, un debito non onorato, una perdita che ha affossato la banca, che fin da quando era la Cassa di Risparmio di Genova è il centro dell’interesse di clienti ricchi e parsimoniosi come i liguri e che si è scoperta pratica dopo pratica, scandalo dopo scandalo valere niente o poco più, con l’azione scesa a 0,0013 euro? Venerdì scorso la capitalizzazione di Borsa stimava il valore complessivo dell’istituto di credito in 78 milioni di euro, un dato quasi irreale.
Visto da questa angolazione, il comportamento del primo azionista del gruppo, la Malacalza Investimenti che detiene il 27,5 per cento del capitale a fronte di un investimento di 423 milioni di euro in quattro anni, sarebbe comprensibile. Anche perché quell’investimento oggi si è ridotto ad appena 20 milioni di controvalore. Sarebbe dunque comprensibile, se non fosse che l’aver tirato il freno a mano in assemblea, lo scorso 22 dicembre, astenendosi sul voto di approvazione dell’aumento di capitale da 400 milioni di euro e di fatto bocciando la proposta, ha messo la banca ancora più in crisi. Di credibilità, prima di tutto e di prospettive.
Se il primo azionista con i fatti, non con le parole, non crede all’azione dei manager che lui stesso ha posto al vertice dell’istituto novanta giorni prima, perché dovrebbe crederci il mercato? E così è stato giovedì 27 dicembre, con un -18,7 per cento in Borsa che ha portato il valore del gruppo ai minimi storici, ritoccati al rialzo nella seduta di venerdì. C’è, a proposito del valore Carige, un episodio che è opportuno ricordare. Il 31 ottobre 2017 la banca emise un comunicato con il quale informava il mercato della vendita del palazzo di Corso Vittorio Emanuele II a Milano, al fondo Antirion Global. Valore della transazione: 107,5 milioni di euro. Un anno dopo, tutta la banca vale il 30 per cento in meno di quel singolo palazzo. E nel frattempo si è realizzato un aumento di capitale da 544,4 milioni di euro, portati in casa il 22 dicembre 2017. Se si somma l’aumento di capitale agli introiti derivanti dalla vendita del palazzo milanese, alle altre cessioni realizzate nell’ultimo anno, si arriva a una valore cash di oltre 800 milioni di euro. Oggi ne è rimasto meno di un decimo.
La situazione preoccupa. Il 27 dicembre i vertici di Carige sono stati sentiti a Francoforte dagli esponenti della vigilanza della Bce. Proprio oggi Daniéle Nouy lascerà la poltrona di responsabile ad Andrea Enria, ma in questo momento di transizione è Ramòn Quintana, direttore generale della divisione che segue Carige, a rappresentare la continuità dell’opera di vigilanza. Con Quintana c’erano, davanti a Carige, anche Fabio Pennetta e Ciro Vacca, della Banca d’Italia. Tutti hanno confermato la necessità di porre mano rapidamente all’aumento di capitale: la bocciatura uscita dall’assemblea del 22 dicembre, ai limiti della irresponsabilità, ha prodotto due effetti convergenti e negativi per la banca genovese. Anzitutto una grave perdita di tempo. Poi, ha insinuato un dubbio sulla finalità dell’opera del Fondo interbancario di tutela dei depositi che, attraverso il suo Schema volontario di intervento, era riuscito in tutta fretta il 30 novembre scorso a trovare tra le altre banche italiane 320 milioni di euro da prestare a Carige per rispettare i requisiti minimi di patrimonio richiesto dalla Bce.
Un’azione benemerita di pronto soccorso, un prestito ponte per arrivare all’aumento di capitale con il quale si sarebbero rimborsate le banche prestatrici, mantenendo Carige in linea di galleggiamento. È qui che la legittima domanda del primo azionista (quando tocchiamo il fondo?) lascia spazio ai dubbi, mettendo in forse addirittura la continuità aziendale e aprendo atroci incognite sul futuro dei 4.300 dipendenti del gruppo. Una frenata improvvisa e ingiustificata, perché appare chiaro a tutti che Carige è destinata ad essere assorbita da una banca più grande e più sana (forse francese), che non ci sarà un futuro stand alone per la vecchia cassa genovese e che ai Malacalza, a cui a Genova ne sono riuscite molte, questa è andata proprio storta. Combattere contro i mulini a vento è impresa già fallita in passato. Modiano e Innocenzi, presidente e amministratore delegato, stanno cercando di tenere tutto unito. Il recente messaggio di Innocenzi ai dipendenti in occasione del Natale è un invito a guardare avanti insieme, con fiducia, «sorretti dal comune impegno e dall’attaccamento a Carige». Ma la crisi è profonda. Le dimissioni della vicepresidente Lucrezia Reichlin, coinvolta tre mesi fa, sono un chiaro indicatore delle tensioni interne e delle fratture che in questo arco di tempo si sono generate tra proprietà e management. Una contrapposizione inutile e dolorosa. Che non si giustifica neppure con il tentativo di limitare le perdite. Sottoscrivere pro quota l’aumento da 400 milioni costerebbe a Malacalza investimenti altri 110 milioni di euro che porterebbe il totale investito nella banca a 533 milioni. Ma continuare a tenere il freno a mano tirato potrebbe portare ad alzare ulteriormente il costo dell’operazione.