Chiamiamolo «paradigma Champions». Potrebbe avere i volti, per esempio, di Annalisa, Alessandro, Luca. Due fratelli, un cugino. Terza generazione della dinastia aziendale fondata novant’anni fa dal nonno Carlo. Di cognome fanno Botter e, dato che questo è anche il brand del gruppo che sono loro tre, oggi, a guidare, se non altro ai buoni intenditori di vino qualcosa dovrebbe venire in mente. In realtà — e i diretti interessati confermano — non succede quasi mai. Quantomeno non in Italia, non al di fuori dei professionisti del settore, e neppure perché i Doc, Docg, Igt imbottigliati a Fossalta di Piave non siano considerati tra i migliori della nostra enologia.
Lo sono, naturalmente. La loro bacheca è ricca di premi internazionali. E a loro va, oltretutto, il primato nella classifica delle etichette italiane più esportate: ogni 35 bottiglie vendute all’estero dal nostro Paese, una è made in Casa Vinicola Botter Carlo Spa. Essendo la società, anche, il nostro settimo maggior produttore, noi connazionali dovremmo riconoscere al volo il suo marchio e i suoi prosecco, Pinot, Montepulciano (eccetera eccetera). Nemmeno questo accade. Sono introvabili e la ragione è semplicissima: a cercare clienti oltre confine hanno incominciato i genitori di Annalisa, Alessandro e Luca quando ancora — erano gli anni Sessanta — i nostri piccoli e medi imprenditori non viaggiavano così tanto, né parlavano inglese o francese o tedesco, e da quei giorni la macchina-export dell’azienda ha girato a ritmi tali da portare ormai la voce «quota estero» al 97% del fatturato.
Troppo? Forse. Di sicuro, e se non altro per questioni d’immagine, è un paradosso e insieme un controsenso che i doc della filiera Botter si possano bere in 70 nazioni ma non nel Paese d’origine. Annalisa lo riconosce — «Essere presenti sul mercato domestico è importante» — e l’annuncio viene di conseguenza: aspettiamoci novità, da Fossalta, a «dedicare particolare attenzione anche all’Italia» hanno già cominciato.
Da qui inizierà un nuovo capitolo della storia aziendal-familiare, avviato peraltro l’estate scorsa con l’apertura del capitale a scopo crescita (ulteriore, e naturalmente anche e sempre all’estero). È chiaro che ciò che ci verrà scritto dipenderà soltanto da loro. Ciò che è stato scritto finora, invece, è per moltissimi aspetti simile a quel che si legge nel più grande libro dei Champions italiani. La Botter entra di diritto nella nuova classifica che, accanto all’aggiornamento delle 500 piccole imprese Top (per tassi continuativi di crescita, redditività, liquidità), L’Economia e ItalyPost presenteranno il 15 marzo in Piazza Affari. L’ingresso nella Top 100, ovvero i migliori gruppi di medie dimensioni (120-500 milioni di fatturato, stessi criteri di selezione in base all’analisi di sei anni di bilanci di tutte le aziende italiane della categoria), Fossalta se l’è guadagnato con risultati di questo tipo: crescita media annua del fatturato del 13% nel periodo 2011-2017, fino a superare i 180 milioni del penultimo bilancio (il 2018, in via di chiusura, dovrebbe arrivare al tetto dei 200 milioni), redditività industriale media del 14,47% nell’ultimo triennio e infine, per fermarci al solo 2017, 16 milioni di utili netti e un rendimento del capitale investito attorno al 30% (i dati completi nella tabella della doppia pagina che segue).
Non basta. L’ultima Indagine Mediobanca sul settore vinicolo (2018, conti del 2016) mette Botter in cima alla graduatoria dei produttori «in base alla forza dei loro bilanci». E se IDea Taste of Italy, uno dei fondi di DeA Capital, l’estate scorsa ha deciso di accompagnare la crescita del gruppo (anche verso la Borsa), la ragione va cercata lì: negli straordinari tassi di sviluppo, confermati esercizio dopo esercizio da un periodo ormai molto lungo.
È esattamente quel che si può dire di tutti gli altri Champions, Top 100 o 500 che sia. E allo stesso modo tutti (o quasi: l’eccezione sono i brand della moda o del largo consumo) vivono il paradosso portato all’estremo da Botter: essere conosciuti e apprezzati molto più all’estero. A volte per scelta, come nel caso di Fossalta, altre per colpevole disinteresse del sistema-Paese che li circonda. È vero, di questo sistema loro hanno imparato a fare a meno. Il «viceversa» però è suicida. Il fatturato industriale italiano è appena crollato del 7,5% (Istat, dicembre 2018 su 2017), e in quel Nord Est che è la tappa del viaggio tra i Champions di questo numero de L’Economia la crescita resiste, certo, ma in pesante frenata.
Poi sì, è un Nord Est diversissimo dal passato. Si è giocato le ex forze trainanti del tessile (Stefanel è in concordato preventivo, in Benetton è dovuto rientrare l’ottantaquattrenne Luciano per provare a rilanciare gli United Colors), ma ha saputo reinventarsi in una miriade di nuove eccellenze, diffuse e diversificate quanto il resto dei 600 Top nazionali. Se la crisi si abbatterà forte come in molti temono, saranno loro, i piccoli Campioni sconosciuti dell’Italia che comunque ce la fa, ad aiutare il Paese a stare a galla. Sempre che non sia il Paese ad affondare (anche) loro. Costringendoli a passare la mano. E magari a qualcuno dei tanti pretendenti esteri. Per i quali i nostri 600 sono tutto, tranne che sconosciuti. Non a caso c’è la fila.