Alcuni vini migliorano con il passare degli anni. Non sono mai per palati facili. Occorre averli già frequentati per capire che la loro struttura è “prezioso gusto”. Anche alcuni libri necessitano di tempi di invecchiamento per poterli leggere. Tempi per poterli assaporare. Il tuo metronomo interiore deve muoversi ad un ritmo basso, inusuale. Scendere fino al punto di lasciarsi risucchiare dal vortice del raccontato. Di fronte a questi libri il rischio è scambiare un capolavoro per un’accozzaglia di frasi. La frontiera è senza un confine preciso: il tempo che ti dai, il tempo che gli concedi.
“Il pane del patriarca” ci ha messo un po’ ad arrivare in Italia. Scritto negli anni ’70 da Raduan Nassar, solo adesso è stato tradotto nel nostro Paese. Al centro un figliol prodigo. Storia, in fondo, di tutti noi. Non occorre fisicamente scappare di casa per poi sentire la necessità di riappropriarsi del luogo natio, e contemporaneamente non essere amati da tutti. Ognuno di noi lascia e poi ritorna ai suoi genitori, alla sua terra, a se stesso (il ritorno più difficile).
La parabola del figliol prodigo è solo una scusa per evidenziare l’ordinarietà della vita. “Il pane del patriarca” non si muove su un pentagramma letterario usuale. Salta, stravolge, riforma il modo di scrivere, e chiede al lettore rispetto, attenzione ossessiva. Però se sali sul suo treno, ti porta naturalmente a destinazione. Nel leggerlo ti trovi immerso nel vuoto, come se venisse a mancare la forza gravitazionale che ti tiene a terra. Finito di viverlo, puoi ritornare in qualsiasi luogo lo hai lasciato, in qualsiasi pagina ti sei perso per riperderti. E’ un cantico dei cantici contemporaneo, fatto di una poetica struggente, nata da un amore innaturale. Potenza della parola che si fa tempesta per poi trovare la quiete. Nassar, brasiliano, ha scritto due romanzi, e qualche racconto. Forse dalla sua scrittura è stato prosciugato, forse aveva capito che il resto sarebbe stato ovvietà.