Quando sale, tutti iniziano a parlare dello spread: tecnicamente è lo scarto nei rendimenti dei titoli di Stato a dieci anni rispetto ai loro pari tedeschi. Cresce quando la percezione del rischio di prestare all’Italia aumenta e i creditori chiedono di essere compensati meglio per investire di più. Questo fenomeno però lo si può chiamare anche in altri modi, se si guarda alla sostanza di ciò che è. Lo si può chiamare trasferimento di ricchezza da chi guadagna meno a chi possiede di più. Lo si può chiamare versamento, senza ritorno, da parte di chi vive in Italia con redditi medio-bassi a banche e assicurazioni. Lo si può descrivere come una spedizione di ulteriore denaro da parte degli italiani, inclusi i meno abbienti, a migliaia di investitori stranieri tutt’altro che bisognosi di carità. Così lo spread è Robin Hood alla rovescia — toglie ai poveri, dà ai ricchi (anche) stranieri — in un Paese nel quale abbonda la retorica, se non la pratica, da Robin Hood veri e propri.
Le promesse e la realtàPrima gli italiani, dice l’uno. «Non possiamo stare dietro alle agenzie di rating ma poi pugnalare alle spalle gli italiani», precisa l’altro. Matteo Salvini e Luigi Di Maio, leader di Lega e M5S e vicepremier, hanno mantenuto dall’inizio un messaggio coerente: attuare il contratto firmato fra loro due a maggio scorso conta più che rassicurare gli investitori, assecondare il resto dell’area euro o impressionare le agenzie di rating che valutano la solidità di un debitore da 2.300 miliardi come lo Stato italiano. Per i due vicepremier gli interessi delle persone comuni, soprattutto le più umili, vengono prima soprattutto di quelli delle banche e dei mercati finanziari.
È presto per giudicare come lui e Salvini siano passati dalle parole ai fatti perché non c’è ancora una legge di Stabilità, mentre in quasi cento giorni i provvedimenti del governo sono stati pochi. Eppure qualcosa è successo, perché ieri i titoli italiani a dieci anni presentavano uno spread su quelli portoghesi pari a quello che avevano sui titoli tedeschi appena quattro mesi fa. Il costo di indebitarsi è aumentato. Le cedole che il governo deve offrire per emettere nuovi titoli di Stato su tutte le scadenze — deve farlo per circa 400 miliardi l’anno — sono più alte. L’Osservatorio sui conti pubblici creato da Carlo Cottarelli all’Università Cattolica di Milano stima che, se nulla cambia, tutto ciò costerà al bilancio pubblico sei miliardi in più: uno quest’anno e cinque nel 2019.
Robin Hood alla rovesciaIl mondo politico naturalmente si divide sui rischi e l’opportunità di creare più deficit. Ciò che fatica a entrare nel linguaggio del governo e dell’opposizione sono però le conseguenze dello spread per chi guadagna poco e chi ha grandi patrimoni: è una redistribuzione dal basso all’alto e dall’interno verso l’estero; insomma è l’opposto esatto del programma di governo e accade per effetto delle dichiarazioni del governo stesso. La banca dati dell’archivio storico dell’Indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia mostra infatti che gli italiani sono grandi risparmiatori, ma con differenze fra loro. Queste emergono se si dividono gli abitanti del Paese in venti gruppi, o ventili: da quello con il patrimonio medio più alto a quello con meno risparmi. Nel 2016 per esempio la ricchezza netta media nel gruppo più ricco era di 448 mila euro a persona, di cui oltre la metà sotto forma di risparmio puramente finanziario. I quattro «ventili» superiori, circa il 22% della popolazione italiana, controllavano il 61% del risparmio di tutte le famiglie.
Questa élite patrimoniale con ogni probabilità è la parte di popolazione italiana che potrà investire di più in titoli di Stato di nuova emissione e beneficerà dunque delle cedole più elevate: catturerà parte di quei sei miliardi di costo supplementare per il bilancio pubblico stimati da Cottarelli. L’ultima Indagine della Banca d’Italia mostra infatti che solo il 20% più ricco degli italiani ha quote sostanziali di patrimonio sotto forma di ricchezza finanziaria (per gli altri prevalgono gli immobili). E solo il 30% più ricco investe almeno un decimo di queste somme direttamente in titoli di Stato; in parte lo fa poi anche attraverso fondi gestiti. In base agli equilibri attuali, quasi un quarto dei nuovi titoli e un quarto di quei sei miliardi in più dovrebbe andare a loro. Pochissimo andrà invece al 30% di famiglie che possiede di meno, non solo perché appunto possiede di meno — la ricchezza netta per abitante nel quindicesimo «ventile» è appena di 11 mila euro — ma perché la quota di risparmio finanziario investibile non supera il 3%. I titoli a cedola più alta li comprano invece banche e assicurazioni (oltre un quarto) e appunto investitori esteri (poco meno di un terzo).
Resta da capire chi paga questi creditori con le proprie tasse, ed è qui che gli italiani con redditi medio-bassi entrano in scena. Praticamente metà dei contribuenti è compresa in redditi fra i 12 mila e i 26 mila euro e versano ogni anno 38 miliardi in Irpef netta. È da lì che parte delle loro tasse saliranno sotto forma di cedole verso i ceti più alti, verso le banche e gli investitori esteri.