L a recessione in un solo Paese della Ue, del G7, del G20 e delle 34 democrazie avanzate dell’Ocse è l’esperimento che, suo malgrado, l’Italia vive da nove mesi.
Neanche l’Europa lascia però tranquilli, ora che il commercio mondiale ha rallentato esponendone la fragilità. Un sistema che punta quasi tutto sulla domanda dei propri prodotti dal resto del mondo si affida alle scelte autocratiche della Pechino di Xi Jinping e ai capricci di Donald Trump. Questa strategia di molti governi dell’euro nel 2018 ha smesso di funzionare. Dev’essere per questo che, poco prima dell’ultimo Consiglio direttivo della Banca centrale europea in marzo, Mario Draghi avrebbe fatto un viaggio a Washington che non prevedeva apparizioni pubbliche. La visita del presidente della Bce nella capitale federale americana non viene ufficialmente confermata dai portavoce della Banca centrale i quali, a una domanda in proposito, rispondono con un «no comment».
Di certo a Washington, oltre alla Federal Reserve, risiedono due personalità molto vicine a Draghi dagli anni degli studi comuni al Massachusetts Institute of Technology: l’ex presidente della Fed Ben Bernanke e l’ex capoeconomista del Fondo monetario internazionale Olivier Blanchard. Quest’ultimo da mesi fa circolare idee su una maggiore spesa pubblica per investimenti, specie nell’area euro, di cui di recente sembrano trasparire riflessi anche nelle parole dei leader della Bce. Subito dopo l’ultimo Consiglio il 7 marzo, Draghi ha detto che una politica di bilancio «appropriata» sarebbe in grado di «aiutare la ripresa» e «la convergenza dell’inflazione sul sentiero del nostro obiettivo» (in sostanza, più investimenti ben scelti contribuirebbero ad allontanare il rischio di una deflazione). Pochi giorni fa anche Benoît Cœuré, il francese che siede nell’esecutivo dell’Eurotower, ha fatto un velato accenno alla rigidità con la quale la Germania mantiene i suoi surplus: «Se le preferenze di politica di bilancio contribuiscono alle preoccupazioni sulla disinflazione — ha detto — allora contrastano con gli sforzi della politica monetaria». Il senso è chiaro: oggi l’Europa è l’anello debole dell’economia globale e i governi che hanno risorse per reagire investendo di più, dovrebbero farlo. Non è un invito all’Italia. Dato il deficit e il debito in aumento, far salire la spesa pubblica nel 2019 per uscire dalla recessione è stato come pensare di sollevarsi da terra tirandosi per le stringhe.
Ieri a Roma Marco Buti, direttore generale della Commissione Ue per economia e finanza, ha mostrato perché: l’Italia è rimasto l’ultimo Paese europeo nel quale il costo medio del debito, dovuto agli interessi, è nettamente più alto della crescita dell’economia. In altri termini l’onere del debito si sta espandendo per inerzia più in fretta di quanto non riesca a rafforzarsi la struttura che dovrebbe sostenerlo. Il Paese è entrato in un equilibrio sempre più precario, alla lunga impossibile da mantenere. Una delle missioni implicite della campagna di interventi della Bce (il quantitative easing ) era di far salire la crescita complessiva del reddito, inflazione inclusa, sopra al costo del debito e far scendere così quest’ultimo in proporzione. Nella prima metà del 2018 l’Italia era finalmente tornata a quella soglia, l’equivalente del tornare a galla dopo una lunga apnea. Poi è iniziata questa recessione che continua nel 2019, innescata da due fattori: la frenata del commercio globale, che ha affossato l’export europeo, più la nebbia scesa sulle intenzioni, le azioni e le dichiarazioni dei politici al governo in Italia. «Un ingrediente è stato ciò che è accaduto a livello mondiale», nota Joachim Fels, direttore generale e advisor globale di Pimco. Ma il manager del colosso del mercato dei bond aggiunge: «L’altro fattore è stato l’aumento improvviso degli interessi sul debito italiano, che ha reso le condizioni finanziarie del Paese più difficili». Ridurre lo spread dovrebbe dunque essere la priorità di un governo che volesse ritrovare la crescita. Per questo però servirebbe una fiducia verso l’Italia fra gli investitori che la continua recessione e il caos della politica tornano a erodere sempre di più. «Questo episodio mostra come la fiducia sia facile da perdere ma molto dura da riconquistare, in molto tempo e con tanto impegno». Per ora invece a Roma si vedono solo continue schermaglie fra governanti e nessuna visione del futuro. «Noi sull’Italia restiamo cauti», conclude Fels.