Leggere l’ultimo libro dell’economista Carlo Cottarelli, Pachidermi e pappagalli (Feltrinelli), equivale a un esercizio d’igiene mentale, per scrollarsi di dosso «tutte le bufale sull’economia a cui continuiamo a credere». Sgombrare il campo da tanta confusione per arrivare all’essenza delle cose. Purtroppo poco confortante, perché col voto del 4 marzo 2018 e il successivo governo gialloverde c’è stata solo una «svolta statalista», scrive Cottarelli, forse appena attenuata dal successivo esecutivo giallorosso che comunque non è riuscito a produrre niente di meglio che «una manovra di galleggiamento».
Professore, cominciamo dal titolo. Perché «Pachidermi e pappagalli»?
«Viene da una canzone di Francesco Gabbani, dove si parla di bufale di ogni genere. Nel libro mi concentro su quelle economiche, ne ho elencate una cinquantina».
La più pericolosa?
«In realtà, il loro insieme, che forma una narrazione dove si attribuiscono ad altri colpe che sono nostre: l’Ue, l’euro, il Grande Vecchio invece di correggere i nostri errori».
Esiste un antidoto?
«Non è facile trovarlo. Per prima cosa bisogna capire le tecniche di produzione delle bufale. Per esempio, se un’argomentazione è forte di per sé non c’è bisogno di urlare o insultare gli interlocutori. Secondo, bisogna informarsi, sentire diverse voci e verificare se vengono da fonti qualificate. Cose che richiedono fatica, ma necessarie».
In un capitolo lei rivaluta il governo Monti, che nella narrazione corrente è invece sommerso di critiche.
«Io critico chi critica Monti, che poi, ricordiamolo, era sostenuto da tutti i partiti, tranne Lega e Italia dei valori. Il suo governo fece ciò che in quel momento era necessario per evitare il peggio. Che poi questo non fosse sufficiente è un’altra storia. Effettivamente l’intervento della Banca centrale europea per ridurre i tassi arrivò in ritardo, perché c’erano resistenze nel Nord Europa. Ma chi oggi critica Monti in realtà proponeva politiche che avrebbero portato all’uscita dell’Italia dall’euro».
Nel libro lei sostiene che manovre espansive sono incompatibili con la riduzione del debito. Allora non c’è alternativa all’austerità?
«C’è una giusta via di mezzo. Se ci muoviamo per tempo, con una crescita del Pil dell’1-1,5% salgono le entrate e basta congelare le spese in termini reali e in 3-4 anni si raggiunge il pareggio di bilancio e il debito comincia a scendere. Potevamo farlo tra il 2014 e il 2018, ma abbiamo perso l’occasione».
Neppure l’ultima manovra migliora la situazione?
«Non è né espansiva né regressiva. È neutra, anzi un po’ peggiora i conti pubblici».
Il Reddito di cittadinanza e Quota 100 le piacciono?
«Il Reddito parte da un principio giusto: dare un sostegno rispetto all’aumento della povertà, ma è stato fatto male: favorisce i single e penalizza le famiglie numerose, dove è più diffusa la povertà; non tiene conto del diverso potere d’acquisto tra Nord e Sud. Quota 100 ha peggiorato l’andamento della spesa previdenziale, che già era poco rassicurante prima».
Sulle pensioni lei propone di «consentire a chi fa più figli di andare in pensione prima».
«Sì, è una proposta da approfondire, ma secondo me avrebbe il vantaggio di incentivare la natalità senza un costo immediato per lo Stato».
Torniamo alla «svolta statalista». Se ne vedono le conseguenze anche nelle vicende Ilva e Alitalia?
«Su Ilva non conosco bene il dossier. Su Alitalia, invece, andiamo avanti da anni con “prestiti ponte” che non verranno mai restituiti. Il salvataggio ci è costato finora quasi 10 miliardi, ma non c’è motivo per cui lo Stato debba avere una compagnia aerea».
*Corriere della Sera, 6 novembre 2019