«La moda come non ve l’ha mai raccontata nessuno»? Ma va, pensi: tipica furbata editoriale da copertina, presuntuosa e un anche po’ cheap. Questa volta invece no. Il sottotitolo promette, il libro mantiene. Con i classici richiami pop, naturalmente, quelli che ognuno di noi riconosce all’istante: tipo Meryl Streep, alias Miranda Priestly sul set, alias Anna Wintour tra i potenti del fashion system reale, e le sue odiosissime pretese, scenate, «tirate» ad Anne Hathaway, ovvero Andrea Sachs davanti alla cinepresa, ovvero l’emblema di tante segretarie-assistenti-tuttofare che non a caso hanno tifato per lei dal primo all’ultimo secondo del film.
Ma fin qui è facile. Il diavolo veste Prada, che Andrea Batilla cita all’inizio di Instant Moda, l’abbiamo visto più o meno tutti. Il difficile, in un volume che della moda vuole raccontare la storia, è fare quello che Gabrielle Chanel detta Coco fece per prima «sul campo»: rompere gli schemi, mischiare l’alto e il basso.
I due poli: In effetti non è così immediato, e forse per chi si occupa soprattutto di design non è nemmeno così interessante, ma per esempio: chi ha mai pensato a un link tra il fordismo e gli antesignani del fast fashion? Oppure, ancora più complesso: a qualcuno era per caso venuto in mente che «essenziale per capire la nascita dell’abito moderno» è la riforma protestante innescata da Martin Lutero a inizio Cinquecento?
Ecco. Mescolare l’«alto» e il «basso», in una storia della moda, vuol dire questo. Significa usare i toni narrativi del racconto, non quelli rigidi del saggio, per spiegare perché «moda» è una parola che riguarda tutti — compreso chi pensa di esserne al di sopra — e a livelli che a volte nemmeno sospettiamo.
Semplifichiamola così: per un attimo, e tra le altre cose, Batilla toglie al fashion system quell’immagine di dorato ghetto per happy few in cui gli stessi protagonisti sono, spesso, i primi a rinchiudersi. Per carità, è pure questo. Ai suoi piani alti, i superattici dei party super esclusivi che seguivano le sfilate pre Covid, viveva e si muoveva un mondo a parte. Non fosse arrivata la pandemia, saremmo ancora lì. È uno dei problemi della moda negli Anni Venti del Duemila.
Quando Batilla ha scritto il libro non c’era traccia di virus tanto distruttivi, sul pianeta Terra, ma l’autore già avvertiva: se il fashion ha sempre letto, spesso anticipato, in ogni momento interpretato i cambiamenti della società, bene, oggi è nel fashion stesso che «c’è bisogno di cambiamento». Aggiornate ai giorni del Covid, subito dopo le sfilate che esattamente un anno fa andarono in scena come se nulla stesse succedendo, le ragioni raccontate in Instant Moda e rilanciate dall’autore a marzo 2020, sul suo sito, sono di un’evidenza impietosa: «La moda si sta comportando male, molto male. Preso in contropiede dalla valanga di pessime notizie il mondo del lusso non sembra aver mostrato nessuna delle reazioni tipiche di un settore che, sulla carta, dovrebbe nutrirsi di contemporaneità. I designer stanno rivelando chiaramente quale sia il loro vero e unico problema oggi: non avere il benché minimo attaccamento alla realtà».
Spietato. Eppure, questo è un atto d’accusa da leggere in chiave opposta a ciò che appare. Instant Moda non viene da uno che brucerebbe il sistema, che ce l’ha con il consumismo, che per dimostrare di essere «anti» e «contro» e «al di sopra» compra jeans da pochi euro o «il vestitino da 19,90 in poliestere» non perché non può permettersi altro, ma per imbrogliare la coscienza sentendosi anche molto, molto cool: salvo non sapere, o evitare di pensare, che con quei jeans alimenta «il lavoro minorile in Bangladesh» e quel vestitino «non è praticamente smaltibile e rimarrà in giro per il mondo per i prossimi duecento anni». Perciò no, non sono attacchi ideologici. A muovere Batilla, che peraltro nel settore lavora, è l’esatto contrario: l’amore profondo per la moda, lo stile, la cultura che entrambi racchiudono (o dovrebbero), il valore che esprimono e che è anche, valore economico e occupazionale.
Pensiamoci. Ci perdiamo nei racconti delle sfilate. Anneghiamo nei post degli influencer. Ci affanniamo a cercare di capire cosa faranno, e come, i marchi del fast fashion. A proposito dei quali: il lusso solo ora incomincia a chiedersi se abbia un senso, inseguire la velocità degli Zara al ritmo di due, poi di tre, poi magari di quattro collezioni l’anno. Dopodiché, per restare in Italia: il sistema-moda di cui tanto parliamo dov’è, in realtà? Cosa fa? Quanto ne sappiamo?
Sfilate da Pil. Poco. Molto poco. Finisce sempre che l’orgoglio per un simbolo dell’industria made in Italy, pilastro di Pil ed export, si scontra con i pregiudizi sui lustrini, il lusso sfrenato, i jet e gli yacht e i cortei di body guard con cui si muovono i pochi sulla punta dell’iceberg. Ovvero l’alta moda, i brand, gli stilisti senza i quali era fino a ieri impensabile una qualsiasi sfilata a Milano, Parigi, Londra, New York. Ma se quella punta sta ancora a galla è perché, sotto, non si sciolgono migliaia di piccole aziende che forniscono tessuti artigianali impossibili da replicare altrove, lavorazioni sartoriali, accessori che solo noi sappiamo fare così bene. È in questo modo che il Sistema Moda Italia ha sfiorato nel 2019 i cento miliardi di giro d’affari: con una filiera fatta da 60 mila imprese che, insieme all’indotto, dà lavoro a oltre un milione di persone.
Lo si racconta, tutto ciò? Ci si preoccupa dell’impatto che il Covid, dopo aver «tagliato» l’anno scorso un quarto del fatturato (ma gli utili dei big brand hanno continuato a salire), potrebbe ora avere sulle aziende più piccole e sull’occupazione? Seccamente: no. Quando, nel suo libro, Batilla dice che «in Italia si parla poco di moda e se ne scrive ancora meno», è a questo che si riferisce. E non salva nessuno: non i media, distratti; meno ancora la politica, «disinteressata»; neppure le associazioni di categoria, che «come la politica parla solo di ristori: ma un minimo di visione no?». No, parrebbe. Fingendo di non vedere il rischio serio che comunque, causa intelligente shopping delle grandi multinazionali, i fiori all’occhiello del made in Italy già corrono: «Retrocedere da protagonisti a terzisti del fashion globale».