«Da lunedì mattina, il nostro messaggio sarà questo: ogni punto al di sopra del 17% delle ultime Politiche, darà la misura della nostra vittoria». Questa volta non se l’aspettava nessuno. Né Salvini né il suoi. Quando quel numerino magico, il 3, inizia a spuntare dalle prime proiezioni, rendendo la distanza tra la Lega (sopra il 30) e il Pd (attorno al 20) vicina ai dieci punti, la prudente regola d’ingaggio diramata nell’immediata vigilia dallo staff della comunicazione del vicepremier finisce nel cestino. L’ordine di scuderia di considerare come termine di paragone lo score dell’anno scorso viene cancellato. Come congelata, almeno per il momento, la «dialettica» che rischia di aprirsi tra il vincitore della tornata elettorale di ieri e il gotha del suo partito.
C’è un gigantesco «non detto» ai piani alti della Lega. Probabilmente per qualche giorno finirà offuscato dalle bollicine con cui si festeggerà il risultato elettorale, certo. Ma c’è. Il non detto è che tra il leader e il blocco dei «colonnelli» del Nord — tutti ultras scatenati della fine immediata del governo Conte — possa aprirsi un inedito confronto. E che questo confronto (è il possibile punto di caduta che sta in cima agli incubi inconfessabili del vicepremier) possa trasformarsi presto, se non in uno scontro vero e proprio, in qualcosa di molto simile.
Di qua c’è l’asse del Nord, i Luca Zaia e gli Attilio Fontana, i Giancarlo Giorgetti e i Lorenzo Fontana, che non vedono l’ora di staccare la spina all’esecutivo; di là Salvini, che prima di iscriversi al rodeo anti-M5S delle ultime settimane aveva sempre predicato prudenza. «Datemi tempo di arrivare a lunedì 27 maggio e poi vedrete», diceva.
Ora che il momento della verità è arrivato, ogni melina è superata e bisogna scegliere una delle due strade. Diventare il «capo vero» del governo Conte, provando coi Cinque Stelle a scongiurare l’aumento dell’Iva (Tria ha fatto i primi passi per smontare gli 80 euro e iniziare a fare cassa), garantendo la Tav e trattando da solo con l’Europa? Oppure mettersi alla testa della proiezione nazionale del centrodestra che vince a livello regionale, e andare al voto anticipato? Venerdì scorso, quando il ministro dell’Ambiente di area pentastellata Sergio Costa ha rivendicato «la paternità» dell’inchiesta che ha bloccato la Pedemontana veneta, il governatore Zaia ha chiamato furibondo Giorgetti. «Per quanto mi riguarda», è stato il senso del ragionamento di cui il sottosegretario a Palazzo Chigi ha condiviso pure le virgole, «noi con quelli dobbiamo chiudere da lunedì». Quando il tam tam è arrivato a Salvini, e pure si era agli ultimi fuochi della campagna elettorale, il «Capitano» ha imposto l’altolà. «Vediamo prima che succede».
Ma non c’è solo la strategia a dividere quello che apparentemente sembra un monolite. Anche sul fronte della tattica, sotto il tappeto di via Bellerio, c’è parecchia polvere. L’asse del Nord firmerebbe a occhi chiusi un accordo con Berlusconi e Meloni. Salvini, al contrario, continua in privato a dirsi «più contento di lavorare con Di Maio, nonostante tutto». Il leader, per ora, ha vinto la partita dei consensi suoi. Il tracollo del Cinque Stelle, però, è stato un punto a favore dei malpancisti. Che malpancisti veri e propri ancora non sono, almeno pubblicamente. Ma che presto, finita la festa, potrebbero iniziare a diventarlo.