Scrivendo il suo pamphlet Odiare l’odio, Walter Veltroni ha corso due rischi. Il primo è l’esortazione predicatoria, destinata peraltro alla frustrazione: moderate i toni, non picchiatevi a sangue, siate meno aggressivi, e così via. Il secondo è l’inganno della nostalgia: che tempi orribili questi dell’odio; ai nostri tempi, invece, come eravamo più bravi e gentili.
Rischi ampiamente evitati. La nostalgia, in queste pagine, per fortuna non esiste, e soprattutto non esiste neanche la minimizzazione, tipica del rimpianto nostalgico, delle atrocità del passato, di tutte le atrocità dettate dall’odio, senza distinzioni e giustificazioni. E senza sussiego predicatorio Veltroni, in un libro che stilisticamente del pamphlet riuscito ha il ritmo e l’incisività, vuole soprattutto capire perché in questi anni stiamo vivendo una stagione di odio così veemente. Ne vuole comprendere le ragioni profonde, e raccontare anche che cosa può succedere se l’odio generalizzato, aspro, inarginabile, dovesse malauguratamente averla vinta.
L’odio di cui scrive Veltroni «è una forma di eccezionale presunzione, che fa sì che noi, il nostro modo di pensare, il colore della nostra pelle, la nostra cultura o la nostra religione siano considerati l’unica forma legittima di esistenza. Non accettiamo di essere parte. Incoscienti e presuntuosi, pensiamo di essere il tutto». Ecco, questa «eccezionale presunzione» oggi è in netta crescita, l’unica crescita certa, purtroppo, in un’epoca di decrescita infelice. Ma non dobbiamo solo denunciare un male, dobbiamo capire perché l’odio cresce nelle società dell’Occidente e perché ci sono tanta paura, tanta sfiducia, tanto disincanto, tanto rancore in un mondo dove dilaga la solitudine sociale e, insieme, la fine della speranza che le cose possano cambiare in meglio: incrollabile speranza che dopo la Seconda guerra mondiale ha diffuso nelle nostre società oggi depresse e infelici il più alto livello di benessere e, per un numero incalcolabile di persone, mai conosciuto nella storia.
È la solitudine di massa che nutre le nostre paure, che a loro volta alimentano un odio sempre più invasivo e prepotente. Il frutto avvelenato di un decennio e oltre in cui sono diminuiti i consumi delle famiglie, si sono assottigliate e in alcune cose sono scomparse le reti della protezione sociale, si è spezzato l’ascensore sociale che permetteva alle famiglie di immaginare un futuro più prospero per i propri figli, in cui la popolazione continua a invecchiare e non si fanno più figli, mentre si dilata a dismisura quello che Veltroni, citando il Censis, chiama «il dato del part time involontario» e cioè la precarizzazione permanente del lavoro e della vita. Un mondo del malessere paralizzato dal terrore del declassamento (e che poco riesce a gioire se, come nota Veltroni, nelle parti più disgraziate del pianeta globalizzato la povertà assoluta e disumana tende a ridursi) mentre incombe lo spettro per milioni di esseri umani, per lo più giovani, di un futuro in cui sarà un triste orizzonte esistenziale quello di «costruire la propria vita sulle sabbie mobili».
Ma una democrazia non può reggere a lungo sulla totale «assenza di certezze, o se si vuole di garanzie». Oggi, scrive Veltroni «si aspetta». «Si aspetta» che il peso schiacciante di una crisi infinita allenti la sua presa, «si aspetta» impotenti, preda delle paure. In un sondaggio italiano su come si immagina la condizione socio-economica del futuro, il 38 per cento prevede che sarà peggiore, e solo il 21 che migliorerà. Così la democrazia si svuota, perché la democrazia deve garantire ai suoi cittadini che le cose possano andar meglio, per tutti e per ciascuno, e se viene meno alla sua missione, finisce per indebolirsi, e forse per svanire, una promessa scolpita nelle sue insegne.
La democrazia non è solo un insieme di procedure (importantissime, per carità) ma soprattutto un modo di rispondere alle esigenze sociali. Se viene meno per troppo tempo a questa missione, la democrazia si immiserisce: «La disperazione genera un bisogno di rassicurazione. Se non provvede a garantire la soddisfazione di questo bisogno vitale, la democrazia può soccombere».
E infatti, scrive Veltroni, il pericolo di un indebolimento fatale della democrazia, corrosa e messa in crisi da un aumento esponenziale dell’odio, viene esasperato dalla percezione che con gli strumenti democratici non si decida più niente, alimentando la fallace ma contagiosa convinzione che i regimi autoritari siano più efficaci, offrano risposte più veloci.
La democrazia deperisce se il meccanismo della decisione salta e soprattutto se si diffonde la sfiducia nei canali, a cominciare dal voto, che esprimono la sovranità popolare. Chi decide? E che rapporto c’è tra l’espressione della volontà popolare e le sedi dove si decidono le sorti della politica e dell’economia?
Lasciare al populismo questa bandiera è — emerge nel libro di Veltroni — il grave errore di chi a cuore le sorti della democrazia. E anche il trionfo del trasformismo, lo spettacolo di cambiamenti repentini e senza serietà che sviliscono l’idea stessa di rappresentanza democratica moltiplicano la sfiducia, intaccano la forza di una democrazia che deve rappresentare le correnti politiche presenti nella società e, insieme, dare loro uno sbocco di governo.
Veltroni non si rassegna alla crisi mortale della democrazia. La fine dei luoghi stessi della partecipazione democratica, i partiti, i sindacati, i corpi intermedi, consegna la solitudine sociale allo strapotere di un web in cui i messaggi di odio crescono come uno tsunami che non conosce argini e limiti. Odiare l’odio, secondo Veltroni, non è un esercizio pedagogico, ma è il richiamo a una riscossa per rivitalizzare le forze di una democrazia in crisi, che sappia dare risposte, che comprenda le ragioni del malessere e della paura, che non si chiuda in se stessa come una fortezza assediata. Altrimenti l’avranno vinta loro, con conseguenze tristi per una società impoverita, sfiduciata e vulnerabile.
*Corriere della Sera, 8 marzo 2020