Ci si dilania ancora molto sul fatto che l’Italia abbia vissuto una Grande recessione diversa da quella degli altri, più dura e più lunga, controllata solo grazie ai sacrifici e alla tenacia dei suoi abitanti. Si nota invece meno che l’Italia sta vivendo una ripresa irriconoscibile. Non si assiste a niente del genere nel resto del mondo, se si confronta la crescita cumulata nei vari Paesi dai rispettivi punti più bassi raggiunti una decina di anni fa. Da quando l’Italia toccò il fondo nel 2013, il Prodotto lordo è aumentato del 4%. È un rimbalzo di meno della metà rispetto a Grecia, Finlandia, penultimi in questa classifica, mentre il recupero in Spagna e Giappone è stato di due volte e mezzo l’Italia, in Francia di tre volte, in Germania oltre quattro volte, in Gran Bretagna di più del quintuplo e in Svezia di più di sei volte.
Dopo la Grande recessione, mentre gli altri si sono rimessi a camminare o a correre, siamo rimasti inceppati. Eppure sono ripartiti tutti: Paesi che hanno praticato l’austerità e che l’hanno ignorata, Paesi dell’euro o con una moneta nazionale, economie industriali e di servizi. In parte, abbiamo fatto meno strada noi perché siamo stati fra gli ultimi a uscire dal tunnel. C’è però un altro aspetto: abbiamo affrontato la crisi bancaria lentamente e dopo la recessione, non rapidamente e subito come fecero Germania, Spagna, Stati Uniti Gran Bretagna o i Paesi Bassi. In Italia poco meno di dieci anni fa si scelse prima di tutto di cercare di riportare sotto controllo il debito pubblico, temendo che la crisi sarebbe sfuggita di mano se si fosse aggiunto altro debito per ricapitalizzare le banche. Altri Paesi non avevano lo stesso problema e comunque dovettero reagire in fretta perché la loro industria finanziaria collassò prima.
Banche e ripresa lentaQuando però dall’autunno del 2012 per l’Italia torna la calma sui mercati, ormai è tardi. I partiti non volevano più sporcarsi le mani con le banche: il Parlamento viene sciolto prima di Natale e ormai si era già in piena campagna per le politiche del febbraio 2013. Poi dall’estate di quell’anno nuove regole europee limitarono gli spazi dell’intervento e tutti — politici e regolatori — incrociarono le dita sperando che sarebbe stata la crescita a sistemare l’industria del credito. Fu il remake dell’errore del Giappone anni 90. La ripresa non può risanare le banche perché senza banche sane non può esserci ripresa. Dal 2011 a ottobre scorso lo stock di prestiti alle imprese non finanziarie in Italia è sceso del 28%, 250 miliardi in meno. Difficile pensare sia solo perché gli imprenditori non hanno voluto investire. Ed eccoci qua, impegnati sulla Popolare di Bari a gestire i postumi di una storia iniziata oltre dieci anni fa. In realtà le banche ormai stanno meglio, dunque forse sarebbe ora per il Paese di guardare avanti. È tempo di chiedersi dove si nasconda stavolta il ritardo di cui rischiamo di accorgerci fra dieci anni. Quanto a questo, c’è solo l’imbarazzo della scelta: dalle banche, ai campioni industriali da difendere — acciaio, alluminio, la «compagnia di bandiera», le autostrade da rinazionalizzare — la conversazione nazionale è occupata dalle domande su come preservare il mondo di ieri. O come restaurarlo. Non su come preparare quello di domani. Perché nel frattempo il mondo va avanti: l’Internet delle cose, l’intelligenza artificiale e la capacità delle macchine di apprendere dai dati si stanno imponendo rapidamente. L’altra novità è che i paradigmi degli ultimi trent’anni vengono messi in discussione, piaccia o no. Anche l’innovazione più radicale diventa molto politica o politicamente protetta. Dieci anni fa i ragazzi con la felpa di Silicon Valley erano quanto di più incompatibile si potesse immaginare dai burocrati o dai politici di Washington e anche dai banchieri dalle larghe bretelle rosse di Wall Street. Oggi il fondatore di Facebook tiene incontri «segreti» con il presidente degli Stati Uniti, che a sua volta minaccia sanzioni sul Roquefort se la Francia fa pagare una quota ragionevole di tasse ai colossi americani del web.
Campioni tecnologiciNel mezzo naturalmente c’è stata la Cina. Mentre in Italia ci interrogavamo sull’impatto sociale dei giocattoli a basso costo, il regime di Pechino in pochi anni ha prodotto campioni tecnologici difesi e assistiti da una guida pubblica e da uno sfacciato protezionismo. Adesso la Cina è capace di imporre la «everything app» di Meituan Dianping, una piattaforma che fornisce qualunque servizio ed è stata capace in un anno in Borsa di superare il valore dell’impresa italiana più grande. Impensabile, in Europa. La Cina sta spingendo tutti a imitarla nell’uso dei campioni innovativi o della dimensione stessa dell’economia come armi geopolitiche. Persino la brutale repressione di Hong Kong è passata in sostanza nel silenzio in Occidente, tanto è il timore che le imprese europee e americane con i loro milioni di occupati perdano l’accesso al mercato cinese. Così l’Italia si risveglia dalla sua crisi in un mondo segnato da un’ondata di trasformazioni tecnologiche e dal ruolo di governi forti e efficienti. Invece noi stiamo ancora cercando di proteggere o rivivere il passato, sulla base di una serie di governi deboli in uno Stato inefficiente. Ci stiamo autoconvincendo che la risposta per le imprese improduttive sia semplicemente più mano pubblica, senza neanche soffermarci a considerare che lo Stato è il settore meno produttivo del Paese.
Le classificheProprio per questo nella classifica sulla facilità di fare imprese della Banca mondiale siamo in calo da sei anni (al 58esimo posto), nei dati dell’Ocse sulle competenze degli studenti siamo scesi al 34esimo posto, mentre nel 2019 gli investimenti totali al netto dell’inflazione sono sotto i livelli del 2017 e 2018. Persino l’export fuori dall’Europa quest’anno è sceso (i cali verso Cina e Stati Uniti sono a doppia cifra). Eppure nessuna delle idee con cui i partiti si intrattengono contiene la minima promessa di poter affrontare questi problemi. Ci occupiamo di un interventismo da anni 70 invece di cercare di darci un pensiero strategico sui settori da sviluppare. Agire solo in base all’istinto di sopravvivenza, specie quello dei politici, sta uccidendo la vitalità economica del Paese. Se ci pensiamo, il richiamo più o meno subliminale di tutti i partiti principali riguarda sempre la ricostituzione di un passato da recuperare. Lo racconta il mito della «decrescita felice», i leader che mangiano cibi tradizionali in diretta social, un nuovo Pd che torna alle «origini», Fratelli d’Italia con un suo pantheon sul quale è meglio sorvolare, e persino Italia viva che si rifà alla promessa di un ritorno a un passato mitico (benché più recente) del fondatore. Vanno tutti avanti voltati all’indietro. È una psicologia da Paese sconfitto, una sindrome da Russia post sovietica. Ma noi italiani adulti non abbiamo perso nessuna guerra e semmai al formarsi dell’Europa attuale eravamo dalla parte giusta della storia. È tempo di pensare, e agire, come tali.