Finora abbiamo parlato tanto dei crediti in sofferenza delle banche.L’acronimo Npl ( Non performing loans ) è entrato a far parte del linguaggio comune. Sintesi del macigno bancario che ancora grava sulla ripresa del Paese ma che si sta smaltendo con incoraggiante velocità. Anche se l’Italia, secondo l’ultimo rapporto del Meccanismo unico di vigilanza della Bce, rimane ancora prima nell’Unione europea per l’ammontare delle sofferenze lorde (198 miliardi di euro) e quinta nel rapporto con il totale del credito. La statistica mensile più aggiornata, a cura dell’Abi, l’Associazione bancaria italiana, le valuta invece intorno ai 60 miliardi al netto delle svalutazioni già apportate nei bilanci.
Il mercato degli Npl italiani è tra i più floridi e appetiti dagli operatori, in massima parte stranieri. La stima dell’italiana Banca Ifis, specializzata nel factoring, è di circa 72 miliardi di crediti, in sofferenze di vario tipo, ceduti dalle banche nel 2017 con prezzi variabili tra il 5 e il 19% del valore. Il mercato delle transazioni è stato valutato nell’anno intorno ai 13 miliardi. Con rendimenti medi che si avvicinano al 20 per cento. Nel 2018 ne verranno smaltiti molti altri di Npl, in particolare quelli della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca, confluite in Intesa Sanpaolo, per 16,8 miliardi. Lombardia e Lazio, secondo un lavoro di ricerca di Pwc, sono le regioni con le più alte concentrazioni di sofferenze. Ma se si guarda alla percentuale dei cosiddetti bad loans , i crediti peggiori, la Lombardia è all’11,6 %, il Lazio al 14,5, Sicilia e Calabria sfiorano il 20.
Ma ci sono altri Npl dei quali si parla poco e soprattutto una grande quantità di crediti commerciali che si aggiungono ai beni residui delle procedure fallimentari. Secondo il Cerved, nel 2017, sono uscite dal mercato 93 mila imprese. Ne sono fallite circa 12 mila con un calo dell’11,3 % rispetto all’anno precedente. Siamo tornati per fortuna ai livelli pre crisi. I concordati preventivi hanno fatto registrare un calo del 29% rispetto al 2016. Hanno inciso il miglioramento del ciclo economico e le nuove disposizioni della legge 155 del 2017 che ha sostituito il fallimento con la liquidazione giudiziale. Da allora non si dovrebbe più parlare di fallimenti e di falliti. Sono cresciute le liquidazioni coatte che riguardano soprattutto il mondo cooperativo.
Questi dati aprono uno squarcio su un altro mercato, quello pulviscolare delle piccole e medie aziende fallite, degli Npl minori ceduti sempre dalle banche, del residuo patrimonio a disposizione di creditori privilegiati e chirografari. Un universo assai poco trasparente spesso in balia di professionisti disinvolti e giudici compiacenti che hanno a lungo lucrato sulla lentezza dei tribunali, specie al Sud. Le norme più recenti spingono i liquidatori a realizzare il valore degli attivi in tempi ridotti anche se in molti casi si superano i dieci anni. L’ addendum , appena pubblicato dalla Bce, sul trattamento delle nuove sofferenze obbliga le banche a svalutare i crediti chirografari in due anni e quelli cosiddetti secured in sette. Non stiamo parlando di un mercato di frattaglie, ma di somme ingenti che possono essere liberate non solo nel rispetto dei diritti dei creditori ma anche a beneficio dell’intera economia. Si pensi che soltanto al tribunale di Milano le giacenze liquide sono intorno ai 400 milioni.
In questo secondo mercato dei crediti e dei beni residui da fallimenti non operano grandi gruppi, né investitori istituzionali. La novità è rappresentata dall’attività dei cosiddetti distressed fund che acquistano crediti in sofferenza e fiscali dalle procedure concorsuali, oppure immobili e partecipazioni. Insomma, rilevano attivi a prezzo scontato, a volte scontatissimo, e propongono a investitori professionali quote del fondo con tranche — per legge essendo fondi speculativi — non inferiori al mezzo milione.
È quello che sta facendo, per esempio, H Invest Distressed Opportunity Fund, della sgr della famiglia Manuli, che punta a una dimensione di 100 milioni di euro e a un rendimento atteso del 12-14% al lordo delle commissioni (1,2 % annuale del capitale investito, lo 0,5 per coloro che fanno le riscossioni, più un premio sulla performance superiore all’8 per cento). Un impegno per gli investitori di almeno sei anni, «a richiamo», ovvero i soldi si mettono quando ci sono le occasioni di investimento. Gli altri sono tutti piccoli operatori, società costituite da legali e commercialisti, che non raccolgono fondi sul mercato ma investono in proprio. «È un mercato che io stimo tra i 70 e gli 80 miliardi — dice Paolo Bassi, ex presidente della Popolare di Milano e tra i promotori di H Invest che è il primo fondo italiano del settore — . Va detto subito che noi interveniamo quando le questioni legate all’occupazione sono state già risolte. Le banche tendono a liberarsi di questi crediti e gli stessi curatori fallimentari sono indotti realizzare i cespiti rimanenti di una società con una certa sollecitudine. Strumenti di questo tipo, cioè i distressed fund , sono diffusi all’estero e hanno anche la funzione di togliere un po’ di oscurità a una attività estremamente importante per la ripresa dell’economia. La ricchezza residua da storie aziendali sfortunate è rilevante ed è essenziale che venga strappata a condizionamenti di vario tipo». E anche dunque all’influsso della malavita, delle attività di riciclaggio, a quella vasta zona grigia al limite, se non oltre, della legge.
Le proposte ai risparmiatori di questi fondi sono tutte da valutare. Con molta prudenza. Appaiono riservate alla clientela professionale, non a quella minuta e nemmeno per i profili di rischio più prudenti. L’emergere di queste nuove attività regolate può ridurre l’opacità sistemica della coda lunga della crisi economica e finanziaria, nella quale — come si è visto — i ritorni, soprattutto per gli operatori internazionali, sono tutt’altro che disprezzabili. Uno sguardo più attento e critico all’immenso retrobottega dei crediti in sofferenza è doveroso. Non solo perché può far bene all’economia ma anche per rispetto del lavoro di tanti che hanno visto chiudersi anzitempo le porte della loro attività.