Ormai come italiani abbiamo accettato che negli ultimi dieci anni almeno 600 mila nostri connazionali, per lo più giovani e più istruiti della media, se ne siano andati all’estero. Siamo venuti a patti anche con l’idea che ciò ci tenga svegli la notte. Da un recente sondaggio condotto da YouGov per lo European Council of Foreign Relations emerge che nel Paese sono più numerosi coloro che si preoccupano dell’emigrazione che quelli che perdono il sonno per l’immigrazione. A bbiamo paura di allevare figli che non si occuperanno di noi, perché sono lontani. Abbiamo paura che i nostri nipoti non ci capiscano, perché non parleranno la nostra lingua.
Resta da capire perché tanti italiani colti, preparati, giovani e ambiziosi vogliano andarsene. Difficile pensare che siano solo migranti economici dei ceti schiacciati dalle forze tecnologiche e commerciali del secolo. Questi ultimi esistono, naturalmente, ma tendono a spostarsi da una regione all’altra d’Italia. Da Sud a Nord, per lo più. Da province come Crotone, Isernia, Reggio Calabria, Matera, Vibo Valentia, Caltanissetta, Potenza, Foggia ogni anno si muove verso il resto del Paese circa una persona ogni cento: numeri enormi, il doppio della media nazionale, concentrati in aree dove il tasso di occupazione è molto sotto a quello generale del Paese. Eppure fra questi figli della piccola borghesia del Mezzogiorno, la quota di coloro che vanno a cercare fortuna all’estero è spesso molto al di sotto della media nazionale.
È invece un enigma, e una chiave per capire l’Italia, il fatto che gran parte di coloro che vanno all’estero vengano dalle regioni più ricche. Delle 57 province con un tasso di emigrazione internazionale superiore alla media del Paese, 45 hanno anche un tasso di occupazione più alto della media. Si espatria da culle di qualità della vita, ricchezza e produttività come Mantova, Vicenza, Trieste, Varese, Como, Trento. Fra le prime venti province per percentuale di abbandono del Paese, soltanto tre hanno meno occupati della media. Tutte le altre ne hanno di più, spesso molti di più: accade per esempio a Treviso, Pordenone o Bolzano. Questa gente non va via in primo luogo perché non trova lavoro. Dev’esserci qualcos’altro.
Perché allora i giovani se ne vanno da città tanto civili, floride, accoglienti? C’è una correlazione fra le aree di origine di questi ragazzi e la mappa delle crisi dei distretti italiani: Macerata con le calzature, i mobili in legno di Udine o di Pordenone, l’industria orafa a Vicenza o ad Arezzo, il tessile di Como. Questi sono luoghi di antica ricchezza ma alta intensità di «defezioni» verso il resto del mondo, ancor più che verso il resto del Paese. E benché la migrazione intra-italiana sia in media doppia rispetto a quella fuori dai confini, ci sono province in cui la seconda è più forte. Non può essere solo crisi dei distretti, è come se la rottura sentimentale con il Paese d’origine fosse davvero profonda. È così per Sondrio, Bergamo o Lecco per esempio.
Emerge poi nei dati anche una seconda correlazione: sei delle undici province che nel 2017 hanno conosciuto la più alta emigrazione verso l’estero sono state teatro, negli anni precedenti, di dissesti bancari (Imperia, Macerata, Vicenza, Teramo, Treviso e Arezzo). Dal 2011 quattro di queste sei province hanno visto crescere il loro scarto sulla media nazionale. In altri termini, dopo i crac delle banche locali, da posti come Vicenza, Teramo, Arezzo o Macerata la gente se n’è andata ancora più di prima, in proporzione a quanto accadeva nel resto del Paese.
Ma la mappa dell’espatrio dice in primo luogo che, appunto, le cause profonde non sono solo economiche. Difficile spiegare altrimenti perché tanta gente se ne vada da decine delle città più ricche e gradevoli d’Europa. Le ragioni devono essere anche culturali e psicologiche. Di certo i giovani istruiti che tendono a lasciare il Paese hanno più energia, più capacità di usare la tecnologia e idee più fresche dei lavoratori di età avanzata che in Italia rappresentano la maggioranza. In azienda, lo scarto di mentalità fra i primi e i secondi diventa presto evidente. Le nuove generazioni istruite tendono a trovare il modello di piccola e media impresa italiana arretrato sul piano delle tecnologie, inadeguato nella prima linea dei manager, riluttante a dar loro spazi di crescita rapida.
Chi gestisce le imprese, non solo le più piccole, può sentirsi messo in discussione dalle nuove generazioni e magari anche messo a nudo nella propria obsolescenza. La reazione difensiva si nasconde dunque dietro il paternalismo e lo spirito gerarchico. Ma ormai i ragazzi non aspettano, perché hanno un’alternativa: possono decidere che non vogliono più subire la lentezza, l’atrofia e la rigidità delle carriere. E se ne vanno.