L’evento è in programma alle 15 di domenica 3 marzo nella Sala conferenze del MUSE. Conduce Alberto Faustini, direttore dell’Alto Adige. Per iscriverti all’evento, clicca qui
È sui tornanti che portano a San Cassiano, mentre i boschi si infittiscono e il cielo diventa più basso, che cominci a entrare nel suo mondo. Norbert Niederkofler è nato poco distante da qui, sulle montagne della Valle Aurina. E per conoscerlo davvero devi venire in Alta Badia, nella terra dove giorno dopo giorno questo 56enne, che si sveglia ogni mattina alle 6.30 e va a letto puntualmente dopo l’una, ha costruito la sua cucina. Il cui senso è tutto racchiuso in una manciata di metri quadri, quelli del ristorante «St. Hubertus», tre stelle Michelin (l’ultima presa nella guida 2018) dell’hotel Rosa Alpina, di proprietà della famiglia Pizzinini. È qui che si svolge il film della sua vita. Ed è qui che ha costruito la sua filosofia: cucinare la montagna. Che, detta così, sembra quasi un’assurdità. Ma provate a sentire il profumo della sua fonduta di betulla. Vi ricrederete: scorgerete, pur nell’emozione di assaggiare degli ingredienti selvatici, una memoria antica. Che affonda le radici nella cucina delle mamme e delle nonne. Ed è questo forse il suo segreto: partire da quel che si è. Non dimenticare le origini. «Anche a tavola», racconta il «cuoco della montagna» mentre fuori il tramonto copre dolcemente le foglie.
La sala lettura del Rosa Alpina è come la chiglia di una nave, solo che veleggia in un verde già pronto a diventare giallo, in vista dell’autunno. «E noi abbiamo imparato che bisogna prepararsi a questo avvicendamento anche in cucina. La prima volta che ho cominciato il mio progetto gastronomico, “Cook the mountain”, d’estate non avevo avuto problemi con i prodotti, c’è una tale ricchezza! Poi però, quando è arrivato l’inverno, è stato un disastro. Avevo rape e verdure, punto. Ma essere coerenti con l’idea di cucinare solo quello che ti offre il tuo territorio è anche questo: programmazione. Conservare d’estate quello che ti potrà servire d’inverno». Rispettare la natura preservando. «Sarà lei a dirti quello di cui hai bisogno. Gli asparagi? Sai che li riavrai tra un anno. E questo è il bello! Il tempo in questo modo assume un significato diverso. La mia cucina ti insegna a gestirlo. Il secondo punto fermo è la stagionalità». E in questo nuovo corso che Niederkofler ha deciso di intraprendere è simbolico, forse, il caso del foie gras. «Sì, quel momento per me ha segnato un punto di non ritorno. Prima in carta avevo un piatto molto gettonato con il foie gras. Ovviamente con la svolta di “Cook the mountain” decisi di eliminarlo. Anche per una ragione etica: non mi piace come viene prodotto. I miei clienti all’inizio si lamentavano. Poi hanno capito. Si sono abituati. Anche al fatto, ad esempio, che non cucino più pesce di mare. La mia triglia mi manca. Ma la farò quando aprirò un bel ristorante al Sud, cosa che non escludo in una seconda vita».
Ti fissa dietro i suoi occhiali con curiosità: «Vuoi sapere come sono arrivato qui? A questa terza stella presa alla mia veneranda età? Non lo so. Quel che posso dire è che sono partito dalla cucina regionale. Che poi, diciamolo, il primo a fare questo discorso è stato Alfonso Iaccarino. Il numero uno. E infatti io lo dico sempre a Gennaro (Esposito, ndr): siete così fortunati a lavorare in costiera sorrentina… Smettetela di farvi la guerra e collaborate. E comunque è dalla cucina di famiglia che dobbiamo ripartire, tutti. Stare accanto a quel che ci offre il territorio. Rispettare la natura e la tradizione. Questi sono i miei mantra e credo che la mia filosofia possa aiutare anche la cucina italiana a comprendere le sue ricchezze. A volte purtroppo ce ne dimentichiamo e scimmiottiamo altri. “Cook the mountain” potrebbe essere letto anche come “Cook the Italy”. Una cosa, però, devo dirla: la cucina nordica mi ha aiutato molto in questo percorso così rivoluzionario. Redzepi e i suoi allievi mi hanno aperto la strada. Già solo cinque anni fa sarebbe stato impensabile avanzare una proposta del genere e vincere la terza stella. E infatti in molti quando ho cominciato mi avevano sconsigliato. Mi davano dello zuccone. Ma io me ne sono fregato: quando senti di dover fare una cosa devi farla e basta. Ascoltando però anche quello che mi dicevano i clienti. Li ho interrogati per mesi: cosa ti piacerebbe mangiare in montagna? Io sono un cuoco che non dimentica mai di cucinare per gli altri. Mi è andata bene. Però, insomma, se mi guardo indietro posso dire che ho fatto di tutto per non avere la terza stella».
Sì, perché la sua filosofia di cucina comporta una serie di limitazioni. Che però si sono rivelate opportunità: «Non usiamo olio di oliva. Così abbiamo imparato ad apprezzare le virtù dell’olio di vinacciolo. Il non avere molte scelte ti fa capire di avere possibilità pazzesche. Non potendo usare agrumi, abbiamo cercato acidità nel mondo delle fermentazioni: fanno benissimo alla salute. D’altronde, l’unica possibilità per noi è quella di essere diversi». Annuisce, Patrick Nagler, l’assistente che veglia su di lui come un fedele mastino gestendogli un’agenda serratissima. Dalla quale lo chef cerca di tenere fuori molti impegni esterni: «Bisogna stare in cucina, altrimenti come lo fai il ristorante? Io sono sempre qui: non dimentico di essere l’allenatore di questa squadra. E poi alla base c’è una scelta di vita: non voglio diventare un frequent flyer che si sveglia in albergo. E anche la tv: ho detto no persino a MasterChef Germania. Ho trovato la mia strada, credo. E cerco di tenere lontano lo stress. Quando beccano uno chef con guai di cocaina mi dico che è assurdo. Che il giorno in cui dovessi capire che posso cadere in droghe o alcol smetto. Il gioco non vale la candela. Questo è un lavoro che ti porta a toccare vette estreme, come la mia terza stella, ma sono perfettamente consapevole che dietro la curva c’è il nulla. Quando l’ho presa ho pianto. L’ho saputo solo mezz’ora prima. Ma il successo crea il vuoto. Dopo la terza stella cosa puoi fare di più? Io me lo sono chiesto, e sai che risposta mi sono dato? Il cuoco». Ride come un matto Niederkofler. Come solo un uomo pacificato con se stesso può fare.
E forse da questo suo modo di affrontare la vita e il lavoro viene fuori anche una way of working che chiamerei «stile Norbert»: «Con gli anni ho imparato ad essere tranquillo. Soprattutto sul lavoro. Odio la violenza. Non ho mai amato il modello Bourdain. Che, per carità, ha fatto un gran lavoro. Ma il suo libro, Kitchen Confidential, è anche una grande americanata, fa passare il messaggio che eccessivo è bello. Sia chiaro, io sono stato in brigate dove quando arrivava lo chef ci si nascondeva. Ma la gentilezza è un valore da preservare. Purtroppo a volte urla, pentole lanciate, piccole angherie, sono un modo per esercitare il potere. Io detesto se quando fai un lavoro di routine lo sbagli puntualmente: significa che sei sciatto. Invece se fai una cosa nuova e la sbagli non dico mai nulla. Può capitare a tutti. Poi, per esempio, ho bisogno di silenzio. Abbasso sempre la musica. La tv. Amo sentire il suono della vita. Invece ai ragazzi, spesso, soprattutto dai social, viene comunicato un messaggio pericoloso: l’aggressività paga. Nulla di più sbagliato». E tutto, al «St. Hubertus», parla di questa calma creativa. Intorno allo chef c’è una squadra che si muove all’unisono. Dal personale di sala a quello in cucina: seguono uno schema di gioco già collaudato. «Mi fido al cento per cento di loro. Sai cosa diceva Bocuse? Quando non ci sono io, cucinano quelli che cucinano ogni giorno… Senza un team valido non puoi fare niente. Se questo è un lavoro per donne? La premessa è che fare i premi per le donne mi sembra una diminutio ai giorni nostri. Comunque la risposta è sì, ma sono ancora poche perché fare il cuoco rappresenta una scelta di vita limitante».
Ci spostiamo in cucina. «È attorno al tavolo di mia nonna che ho cominciato ad amare questo mondo. C’era una vecchia stufa. Ne ricordo ancora il calore. Credo che la cucina sia la stanza più bella della casa. È da qui che poi ho deciso di partire e viaggiare. Per imparare questo mestiere che mi è stato da subito chiaro essere l’unica cosa che volevo fare. Non avevo tanti soldi ma andai via lo stesso a 18 anni. Per 15 circa ho lavorato all’estero. Tanto negli Stati Uniti e Germania. Tra i miei grandi maestri, David Bouley. Avevamo un rapporto speciale. Ed è stato il primo a lavorare con i sapori della cucina asiatica». Mentre Niederkofler parla, intorno a lui si muove la brigata. Con in testa il giovanissimo sous chef, Michele Lazzarini (classe 1991). Più in là, la squadra pastry guidata da Andrea Tortora, nuova stella della pasticceria italiana. E con lui quattro donne: Naoko Nikdaido, Ono Takayo, Federica Battisti ed Elisa Pagni. Sia Michele che Andrea hanno uno stile molto simile a quello dello chef: silenzio e calma. A guardarla da fuori, non sembra quasi la brigata di un tre stelle, dove frenesia e ansia sono all’ordine del giorno. Man mano che arrivano i piatti a tavola, capisci che «Cook the mountain» non è uno slogan. Ma è la cucina del rispetto e della creatività all’ennesima potenza. Elementi che hanno convinto la Michelin a premiare il lavoro al «St. Hubertus». «Quel premio per me è stato il coronamento di una scelta di vita. Ho grande stima della Rossa. Perché i suoi ispettori arrivano, mangiano, pagano e se ne vanno. Rappresenta una classifica di grande qualità. Se invece mi chiedi dei World’s 50 Best, ti rispondo che si tratta di un ranking. Molto importante, per carità. Ma io preferisco la Michelin: è più seria».
Arriva la tartare di coregone. Quel pesce di acqua dolce simbolo della politica anti spreco secondo Niederkofler. «Credo in una cucina democratica, dove impari a comprare bene e non getti via niente. Esiste l’enorme problema degli scarti: nella grande distribuzione anche il 60 per cento della materia prima viene buttata. Mentre scegliendo i piccoli produttori risparmi e hai una qualità maggiore». Squilla il telefono. È Christine. Ecco, se poi si vuole capire anche il suo lato più nascosto bisogna conoscere la moglie, classe 1977. L’altra parte di lui. Dalla quale ha avuto due figli: Thomas, 9 anni. E Maximilian, nato pochi giorni fa, il 3 settembre. «Lei mi ha insegnato tantissimo — dice emozionato mentre mi fa vedere le foto del matrimonio, una festa con gli amici del cuore, la brigata, la gente di qui —. Lei e i bambini sono la mia base. Non a caso ogni sera scelgo di rifarmi i tornanti e scendere a Brunico. È più scomodo. Ma l’idea di potermi svegliare con loro mi fa sentire felice. Perché se mi chiedi se sul lavoro sono felice ti dico che sono contento. Felice… so che c’è ancora tanto da fare. Christine invece è l’amore della mia vita. Abbiamo deciso di avere una famiglia e di crescerla insieme. Non abbiamo baby sitter, lei è bravissima. E da quando ho Thomas ho anche capito quanto sia importante avvicinare i bambini al buon cibo. Lui mangia di tutto. Ha un grande palato. Che si forma da piccoli. Io ricordo ancora il sapore del latte appena fatto, con il burro caldo che galleggiava. Ecco, un mio progetto nuovo sarà avviare in Italia quello che ha fatto Jamie Oliver in Inghilterra: portare l’educazione alimentare nelle scuole. Tra i bambini. Me lo sono posto come obiettivo del 2019, dopo il mio festival etico “Care’s” e “Cook the mountain”». Ma la prima cosa che farai nel nuovo anno? «Un bel viaggio. Ma solo con la mia famiglia, sia chiaro».
*Cook, Corriere della Sera, 18 settembre 2018