La bocciatura è arrivata con una maggioranza «ampia e solida», raggiunta dopo una lunga e approfondita discussione alla quale hanno partecipato tutti i 15 giudici: la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile il referendum elettorale perché il quesito proposto è «eccessivamente manipolativo». Significa che l’eventuale approvazione avrebbe stravolto il senso e le finalità della legge che si voleva cambiare, al punto da renderla incompatibile con i requisiti richiesti dalla Costituzione. Niente consultazione popolare per introdurre il sistema maggioritario, dunque, che il comitato promotore (otto Regioni a guida leghista o di centrodestra) intendeva ottenere con l’abrogazione di alcuni pezzi delle due leggi che regolano l’attribuzione dei seggi alla Camera e Senato. Un‘operazione di certosino ritaglio di interi paragrafi, frasi o singole parole, il cui risultato doveva essere la cancellazione delle quote proporzionali di parlamentari e un nuovo meccanismo elettorale immediatamente operativo. O comunque entro il tempo strettamente necessario al governo per ridefinire i collegi, come previsto da una legge-delega appositamente modificata dallo stesso quesito.
La regola-base che la Corte ha fissato da tempo per i referendum elettorali, infatti, è che la «normativa di risulta», cioè le regole rimanenti dopo l’abrogazione delle parti indicate, sia «autoapplicativa», senza bisogno di ulteriori riforme: quel che resta deve garantire la possibilità di ricorrere alle urne in qualsiasi momento, come richiesto dall’assetto costituzionale e dal necessario equilibro tra poteri dello Stato. Per superare questo sbarramento, i promotori erano ricorsi a un possibile rimedio preventivo: siccome con il maggioritario si sarebbero dovuti ridisegnare i collegi elettorali, avevano inserito nel quesito referendario anche una terza legge, quella che delega al governo la ridefinizione della «geografia elettorale» in vista della riforma costituzionale che riduce il numero dei parlamentari. Con l’obiettivo, attraverso il solito «taglia e cuci», di adattarla anche al sistema ricavato dalla modifica delle altre due leggi. Ma questa operazione è stata bocciata dalla Corte. Prima ancora di entrare nel merito della «autoapplicatività» della «normativa di risulta», i giudici hanno dichiarato inammissibile il metodo escogitato per raggiungerla: l’intervento sulla legge studiata per la riforma costituzionale è «eccessivamente manipolativo» proprio nella parte che serviva a superare le altre ragioni di incostituzionalità. Una delega non si può trasferire da un obiettivo all’altro come se niente fosse.
Era uno dei motivi sottolineati dagli avvocati Felice Besostri e Enzo Paolini per chiedere alla Consulta (a nome di Leu, altri comitati e singoli elettori) di bocciare il referendum: «Emerge, nel quesito, una manipolazione inammissibile dell’oggetto della delega, che secondo l’articolo 76 della Costituzione dev’essere definito, come i principi, i criteri direttivi e i tempi nei quali va esercitata». In attesa della pubblicazione della sentenza la Corte ha fatto sapere di aver accolto questo tipo di rilievo, considerandolo «assorbente» rispetto agli altri. Senza più bisogno di analizzare il resto della questione, se cioè il sistema elettorale scaturito dall’eventuale vittoria dei «sì» al referendum stesse in piedi da solo oppure no. Sebbene densa di implicazioni politiche, la questione era molto tecnica (oltre che complicata e pressoché incomprensibile agli elettori: il quesito referendario era lungo cinque pagine e composto di 4.000 parole) e su quel piano è stata decisa. Ma l’avvocato Besostri ne cava anche una considerazione di altro tipo: «Spero che la sentenza insegni alle Regioni a promuovere referendum nell’interesse delle regioni stesse, e non per fare un servizio a una forza politica».