Dal vicepremier unico del Pd, a zero vicepremier. Il nuovo «atto di generosità» dei dem è una mossa studiata e concordata a tavolino ai piani alti del Nazareno, per togliere ogni alibi a Luigi Di Maio e provare a sbloccare l’impasse che ritarda la partenza del governo giallorosso. Nel giorno del derby tra la Roma e la Lazio i dem ne parlano come di un «calcio alle poltrone», assestato per mettere in fuori gioco il capo politico del Movimento. E se il «sacrificio» del Pd sradica un altro paletto piantato da Nicola Zingaretti all’inizio delle trattative, il segretario è convinto di aver segnato un gol.
«Penso che siamo riusciti a sbloccarla. Con il tweet di Franceschini abbiamo tolto di mezzo il problema dei posti — è stato il commento a caldo del leader con i dirigenti del Pd —. Adesso la palla è nel loro campo, aspettiamo la risposta di Di Maio…». Risposta che al Nazareno hanno atteso invano. Un silenzio assordante, rotto da sospetti, timori, dagli echi del conflitto sul destino della nave Mare Jonio e dalle voci di una telefonata tra Zingaretti e Conte. Al Nazareno non confermano, anche se fonti parlamentari la raccontano come una conversazione «cordiale», che non ha fatto segnare passi in avanti. Il premier ribadisce la sua road map, «prima il programma, poi la squadra», ma ancora non scioglie l’enigma che minaccia il governo.
Il vertice a tre fra Conte, Zingaretti e Di Maio sembra sparito dall’orizzonte e la domenica si chiude con l’arrivo del quesito sul governo Conte bis per gli iscritti alla piattaforma Rousseau: volete un governo con i dem guidato da Conte? Una formula netta che il Pd si attendeva. Intanto Di Maio ha paura che fuori da Palazzo Chigi e con un solo incarico da ministro la sua stella e quella del Movimento possano appannarsi. Allora prende tempo e gioca di sponda con Conte, per quanto i rapporti tra i due siano a dir poco arrugginiti. Nel quartier generale di Zingaretti i dem sospettano che l’inquilino di Palazzo Chigi, rifiutando con buona dose di ambiguità di definirsi un 5 Stelle, «sia poco lineare» e rimandi una decisione diventata cruciale: «Non esclude ancora i due vice per rafforzare la sua immagine super partes, quando è ovvio che non lo è». Il patto stretto da Zingaretti per digerire il nome di Conte prevedeva di assegnare al Pd il vicepresidente unico, i ministri dell’Economia e dell’Interno e il commissario europeo. Ma poi Di Maio si è impuntato e i dem hanno deciso di sparigliare, cogliendo al balzo l’assist di Beppe Grillo («Parlate solo di poltrone, sono esausto») e togliendo il dossier dal tavolo.
«Se avessimo potuto comportarci come fanno le forze europee lo schema era chiaro, loro indicano il premier e il vice spetta a noi — ripete Zingaretti nei colloqui riservati — . Non hanno voluto e adesso la vicenda è chiusa. Certo non possono tornare ai due vice, né nominarne uno solo dei 5 Stelle». Il segretario dem pensa di aver impartito a Di Maio e compagni una lezione di tattica politica, togliendo loro «la sete col prosciutto» e riconosce che la paternità dell’idea è di Dario Franceschini. L’ex ministro, che era in pole anche per l’incarico di vicepremier, ha chiamato Zingaretti e gli ha proposto di «eliminare entrambi i posti da vicepremier». Un passo indietro, per farne uno avanti (in sintonia con il Quirinale). Ottenuto il via libera, Franceschini ha lanciato il segnale di fumo che ha scandito la giornata politica e incassato una raffica di retweet, da Gentiloni, a Boschi.
Ai tanti che lo hanno chiamato per complimentarsi, Franceschini ha spiegato che il Pd ha accettato Giuseppe Conte premier, ma «certo non può reggere anche Di Maio vicepremier». È il leader del Movimento e dunque può fare il ministro, ma non restare a palazzo Chigi come «contraltare». Non si può replicare lo schema di Conte che media tra due vice che si combattono, come è stato fra Di Maio e Salvini. Franceschini era stato il primo ad aprire a un’alleanza con gli avversari, ma ritiene che far naufragare il progetto del governo per un fatto personale sarebbe «inaccettabile». Così la pensano anche tanti parlamentari stellati, che chiedono al capo politico di rinunciare al ruolo di numero due. C’è chi sente puzza di sabotaggio, chi lo invita ad accontentarsi del doppio incarico, chi lo implora di lasciar lavorare Conte. Lamenti e grida che arrivano ovviamente anche al quartier generale di Di Maio, il quale affida il suo umore a Gianluigi Paragone: «Di Maio non piace al Pd perché sta difendendo quello che di buono avevamo fatto nel precedente governo. Luigi deve rimanere centrale».