La tradizionale luna di miele tra un nuovo governo e la rappresentanza d’impresa questa volta non ci sarà o quantomeno subisce un rinvio. È vero che in più di qualche assemblea delle categorie produttive i due vicepremier, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, hanno fatto il pieno di applausi ma al momento delle scelte il consenso «liquido» stenta a coagularsi e spunta il mugugno. Per tutti il casus belli porta il nome del Decreto dignità e delle norme che dovrebbero «irrigidire» i contratti a termine e aumentarne il costo per le imprese. Con la Confindustria poi il contenzioso sembra più largo e si conferma così l’impressione che i veri conti il governo gialloverde più che con l’opposizione parlamentare oggi sia chiamato a farli con il Partito del Pil. Che pur non praticando un’opposizione pregiudiziale si trova stretto tra una congiuntura economica meno favorevole e un esecutivo volto a sperimentare nuove formule.
Il presidente Vincenzo Boccia nei giorni scorsi era stato più diplomatico e ieri invece non ha avuto peli sulla lingua: si è rivolto polemicamente a Salvini che aveva tentato di contrapporre gli interessi delle piccole e delle grandi imprese, Confartigianato versus Confindustria, ricordando al leader leghista che tra le 160 mila aziende iscritte alla sua organizzazione il 90% ha meno di 100 dipendenti e di conseguenza vanta quantomeno il diritto di parola. Non contento Boccia ha anche ironizzato sulla «democrazia diretta» cara ai 5 Stelle: «Se non vuoi sentire i corpi intermedi, puoi fare pure la democrazia diretta ma non si capisce chi ascolti».
Al di là delle singole affermazioni il Partito del Pil non digerisce il continuo ricorso, da parte del governo, agli annunci e in parallelo l’elaborazione pressoché autoreferenziale di nuove normative che riguardano il lavoro o le cosiddette delocalizzazioni selvagge. Ma non basta. La Confindustria pensa che il duo Salvini-Di Maio stia sottovalutando lo stato di salute dell’economia reale, abbia fatto salire lo spread con un inutile contenzioso europeo e poi sventolando la bandiera neo-protezionistica di «Italy first» stia compilando una ricetta autarchica che mal si attaglia a un Paese trasformatore ed esportatore. A sostegno di questa posizione il Centro studi diretto da Andrea Montanino ha aggiornato al ribasso le sue previsioni: il Pil del ‘18 dovrebbe fermarsi a +1,3% (e non a 1,5%) e l’anno successivo dovrebbe raggiungere solamente quota +1,1 (un decimale in meno). Insomma il rallentamento della ripresa è in atto per una serie di dinamiche internazionali che colpiscono il commercio internazionale, non si intravede in patria una politica economica che lo contrasti («si parla solo di migranti e di pensioni») e sull’altro versante aumentano le preoccupazioni sullo stato di salute della finanza pubblica. Anche in questo caso, infatti, il verdetto del Centro studi è stato impietoso: nel ‘18 si renderà necessaria una manovra correttiva di 9 miliardi e nel ‘19 una seconda di altri 11 miliardi. Sul delicato nodo delle clausole di salvaguardia degli aumenti dell’Iva Montanino ha sostenuto poi che «non si può fare come in passato, non aumentare l’Iva e finanziare tutte le spese a deficit».
Le posizioni, dunque, appaiono per il momento lontane. All’incontro di ieri avrebbe dovuto partecipare il ministro Paolo Savona ma si è dovuto limitare a inviare un messaggio per impegni concomitanti e di conseguenza il chiarimento è rinviato ad altra occasione. La verità è che per quanto concerne le relazioni tra governo e l’associazionismo è in corso una sorta di risiko: a una Confindustria scettica Salvini e Di Maio possono contrapporre l’appoggio esplicito della Coldiretti, della Ugl e del Codacons insieme a qualche significativa apertura di artigiani e commercianti. Siamo però alle prime mosse e basta un provvedimento giudicato negativamente per modificare la mappa delle alleanze.