A un certo punto, attorno al 1978, quello sconosciuto piccolo industriale della provincia italiana sbarcò nel Regno e mise paura agli inglesi. Si agitò il primo gruppo britannico, che andò a chieder protezione al primo ministro, che mandò un funzionario d’ambasciata in missione spionaggio a Fabriano e poi chiuse il dossier con la chiave del «segreto di Stato» trentennale. Poco importa che Vittorio Merloni si stesse muovendo «in punta di piedi», come diceva lui e come è consigliabile fare quando si è dei nuovi arrivati. Il fatto è che il newcomer—non solo in Gran Bretagna: da noi stava incominciando a farsi un nome,ma restava lontanissimo dagli allora blasonati signori dell’elettrodomestico — non nascondeva l’ambizione di crescere fino a misurarsi con i big. E in più era convinto che il settore fosse alla vigilia di una rivoluzione. Ed era sicuro che in Europa solo sei, sette produttori — su centinaia di aziende — avrebbero retto alla selezione della specie. E quindi viaggiava, studiava, lavorava giorno e notte con l’unico obiettivo di essere lì,tra i migliori, e poi salire ancora, un gradino alla volta, su fino al podio dei primi tre.
Presunzione pura, per qualcuno. In fondo, il giovane industriale marchigiano era entrato nel business in pieno miracolo economico, quando lavatrici e frigoriferi si vendevano da soli e di quel boom, di quel Paese in cerca di riscatto, erano un simbolo esattamente quanto lo era l’auto. In quel momento, fine Anni Settanta del Novecento, è però già tutt’altra storia. Il mercato europeo è saturo, maturo: o ci si inventa qualcosa a colpi di innovazione, oppure la crisi che già si profila farà strage anche tra i big. Il piccolo, semisconosciuto industriale della provincia italiana è tra i pochi a esserne consapevole. È per questo (anche) che non va considerato un presuntuoso. Rivela anzi la dote, rara, che fa la differenza tra un qualsiasi imprenditore o manager, per quanto di successo, e un leader. Si chiama «visione».VittorioMerloni ce l’ha, da sempre. «Oggi è già domani»,ripete spesso, e ovviamente non è un caso che sia la frase scelta—tra tantissime—dalla figlia Maria Paola per il titolo del libro dedicato al padre scomparsotre annifa, scrittoinsieme aClaudio Novelli e in uscita il 12 settembre per Marsilio.
La prima crisi
Quanto sia capace di anticiparlo, il tempo, l’Italia lo scoprirà una prima volta poco dopo quel fatidico 1978. Sarà un trauma. I tre grandi marchi con i quali l’industria nazionale spadroneggiava nell’Europa dell’elettrodomestico vengono inghiottiti dalla crisi: sul podio continentale del «bianco» non ci sono più Zanussi, Ignis, Indesit, ci sono Electrolux, Philips,Bosch-Siemens.Zanussi e Ignis finisconoproprio a Electrolux e Philips. Indesit sarà il grande salto che consentirà alla piccola Ariston di essere intanto tra i protagonisti della rivoluzione prevista da Merloni e, poi, una delle indiscusse Big Three europee nonché quella a più alto tasso di crescita. Resterà lì, a battersela testa a testa perla leadership assoluta,fino a che l’uomo diventato nel frattempo uno dei pochi grandi saggi dell’imprenditoria italiana sarà in grado di occuparsene. Cioè fino a quando non si manifesterà quella malattia particolarmente subdola e crudele che è l’Alzheimer: gli ultimi dieci anni, quelli che lui pensava di avere davanti per completare il disegno della Grande Indesit capace di continuare a crescere in autonomia, con o senza qualcuno della famiglia alla guida operativa, li passerà invece a combattere nella prigione in cui può trasformarsi anche la più geniale delle menti.
Il senso delle istituzioni
Le cronache hanno ampiamente raccontato tutto. La crescita, la leadership, l’imprevisto e forse imprevedibile declino dell’uomo. Il chiodo fisso della responsabilità sociale dell’imprenditore: chiedere nel territorio, a Fabriano e dintorni, o rivedere le immagini del funerale in un giorno di pioggia del giugno 2016. Il senso delle istituzioni, dello Stato, del Paese:rileggersi i discorsi fatti da presidente di Confindustria, che lui toglie dai giochi della politica intesa come spartizione e trasforma in interlocutore autonomo dal mondo dei partiti e, perciò, autorevole per il Paese e imprescindibile per il Palazzo.
«Lo Stato sociale non può consistere nella distribuzione crescente di risorse calanti» è una frase pronunciata a inizio Anni Ottanta ma terribilmente perfetta oggi, lo slogan «lo sviluppo per l’occupazione contro l’assistenzialismo della recessione» anticipava di decenni i «no» ai profeti della decrescita felice.
Capita però questo, a volte, con la cronaca: che insegue e supera se stessa a una velocità tale da lasciare rari spazi per fermarsi , unire i puntini del giorno per giorno, tirarne fuori la visione d’insieme. ConVittorioMerloni è andata così. Lui viaggiava a mille, la cronaca ogni tanto di distraeva un po’, a rendere la forma completa del quadro mancava sempre qualcosa. Un peccato. Perché ciò che mancava è, anche, un pezzo importante di storia di questo Paese. Perciò ha fatto bene Maria Paola Merloni a volere un libro che, se è certamente l’omaggio di una figlia al padre, su tutti ha un merito: unisce i
punti, restituisce la visione d’insieme, e lo fa scansando ogni retorica (Vittorio l’avrebbe detestato) perché lascia che, a parlare, sia la semplice narrazione dei fatti.
«Italiani ineccepibili»
L’idea di quel che ne esce alla fine la rende l’immagine da cui questo articolo è partito. David Campbell, funzionario dell’ambasciata britannica a Roma, fu davvero spedito a Fabriano dal premier James Callaghan. Aveva davvero il compito di trovare qualcosa da usare contro la piccola azienda italiana che tanta agitazione stava creando alla molto più grande Currans, gloria nazionale britannica dell’epoca. E davvero Callaghan non sifece scrupolo di ricorrere al sigillo del segreto di Stato.Durava trent’anni, è scaduto nel 2009.Il segreto che proteggeva siriv elò effettivamente imbarazzante perl’orgoglio
british. «L’impressione è che questo sia un impianto super efficiente, gli italiani sono ineccepibili», telegrafò Campbell a Downing Street a missione spionaggio compiuta. «Gli italiani sembrano semplicemente più efficienti», si arrese Callaghan
nella nota riservata finale. Merloni non lo seppe mai: era già malato, quando Londra tolse i documenti dagli archivi.Non lo era, invece, quando The Economist dedicò all’Italia un lungo reportage e salvò solo Fabriano. L’unico «modello vincente di
sviluppo internazionale», scrisse il settimanale. Era il 2005. Di lì a poco la malattia cambierà tutto. Ma la storia, quella, rimane: ed è qualcosa da cui possiamo solo imparare.
*L’Economia, 9 settembre 2019