C’è un filo che collega i due ingranaggi che girano in modo più faticoso nel motore del governo: quello che dovrebbe far quadrare i conti pubblici e l’altro, che a questo punto deve produrre entro pochi giorni i nomi dei nuovi vertici della Cassa depositi e prestiti. Nessuno ha capito come chiudere la Legge di bilancio senza tradire le promesse elettorali né perdere la fiducia dei mercati, mentre anche trovare un accordo sui nomi dell’amministratore delegato e del direttore generale di Cdp si sta dimostrando più complicato del previsto. Magari sarà normale per un governo agli inizi, ma niente risulta lineare come sembrava nel contratto firmato da M5S e Lega.
Le difficoltà sui due fronti si spiegano con un problema comune: risorse finanziarie scarse. Di conseguenza, la competizione fra forze politiche per controllare quelle poche che sono davvero disponibili sta diventando ogni settimana più acuta. Lo stallo attorno alla nomina di presidente, amministratore delegato e presidente di Cassa depositi e prestiti si spiega così: alla settima settimana di governo, è ormai chiaro a tutti i contraenti che la prossima Legge di bilancio non potrà nemmeno iniziare a mantenere tutti gli impegni del programma. Anche le versioni più diluite costano troppo, dunque nella manovra qualcosa andrà buttato giù dalla torre. Poco importa se quella sarà l’ultima occasione di distribuire potere d’acquisto agli elettori prime delle europee del 2019.
È il fatto che M5S e Lega abbiano compreso questi limiti a rendere la sfida per Cdp più accanita. Come dice la ragione sociale del gruppo, lì dentro infatti la cassa c’è. La holding controllata dal Tesoro fra i suoi tanti mestieri garantisce credito alle imprese per circa cinque miliardi di euro, ne estende direttamente per vari altri miliardi e solo nelle start up italiane ha preso partecipazioni per 600 milioni. Questa è la polpa che a una forza politica fa più comodo e dev’essere per questo che sono diventati così tortuosi i negoziati sulle deleghe dei vertici del gruppo. Poiché l’azionista è il Tesoro, l’indicazione del capo operativo di Cdp spetta al ministro dell’Economia; e poiché Giovanni Tria è esterno ai partiti, ha scelto un profilo coerente con il proprio: Dario Scannapieco, vicepresidente della Banca europea degli investimenti ed ex dirigente del Tesoro quando a guidare via XX Settembre c’era Mario Draghi. Il mondo politico, specie i 5 Stelle, sostiene però la figura di un direttore generale forte (l’attuale capo finanziario di Cdp Fabrizio Palermo) e gran parte del negoziato in queste ore sembra essere sulle sue deleghe.
Ma, appunto, queste complicazioni dicono che la Legge di stabilità non sarà un pranzo di gala. Dopo l’aumento degli interessi sul debito innescato da promesse in deficit e retorica anti-euro della maggioranza e vista la frenata della crescita nel 2019 all’1% (secondo Banca d’Italia e Fmi), gli spazi sono minimi. Solo per non far salire il deficit oltre l’1,6% o 1,7% del reddito l’anno prossimo — cioè per tenerlo ai livelli attuali — servono nuove entrate o tagli di spesa per otto miliardi. Senza neanche iniziare a parlare delle promesse sulla cosiddetta «flat tax», sulle pensioni o sul reddito di cittadinanza: Lega e M5S dovranno congelare e rinviare qualche grande capitolo di programma, dunque si sfideranno in autunno su quale dei loro due elettorati deludere o soddisfare di più. La manovra d’autunno si profila sempre di più come una competizione fra le due forze di governo, non fra loro due unite e il ministro dell’Economia.
Le perplessità di Tria sulle spinte che vengono dalla maggioranza si intravedono del resto in un altro stallo evidente: non ha ancora assegnato deleghe ai suoi due viceministri Laura Castelli (M5S) e Luca Garavaglia (Lega), benché il rapporto con quest’ultimo sia buono. Ieri poi si sono iniziati a notare anche i timori del mercato sulle nuove tasse che potrebbero emergere in Legge di stabilità. A Piazza Affari sono crollati i titoli del settore finanziario perché il vicepremier Luigi Di Maio (M5S) ha promesso che le banche «pagheranno»; magari anche a costo di indebolirle proprio ora che sono convalescenti dopo la crisi, complicando così l’accesso al credito per famiglie e imprese.