L’establishment comunitario si interroga sul futuro dell’Italia, dopo una estate segnata da un confronto acceso tra Roma e i suoi partner, sul fronte migratorio così come sul versante finanziario. I mercati stessi sono sul chi vive. Parlando al Sole 24 Ore, Pierre Moscovici, il 60enne commissario agli affari monetari, chiarisce i termini della discussione sul prossimo bilancio italiano. Da socialdemocratico, ne approfitta anche per esprimere preoccupazione sul futuro dell’Italia e dell’Unione a nove mesi dal prossimo voto europeo. Ammette di non poter escludere totalmente il desiderio di alcuni governanti italiani di voler uscire dalla zona euro.
Il governo italiano si è impegnato a ridurre il deficit strutturale dello 0,3% del Pil nel 2018. Ciononostante, non ha previsto alcuna correzione ai conti pubblici quest’anno.
Prima di rispondere alla sua precisa domanda vorrei sottolineare che l’Italia non può lamentarsi della Commissione europea. Quest’ultima è sempre stata al suo fianco per sostenere la crescita. Il paese è di gran lunga quello che più ha beneficiato di flessibilità di bilancio, secondo le nostre regole. Nel corso degli anni, abbiamo tenuto conto di circostanze eccezionali: la sicurezza, i terribili terremoti, l’emergenza migratoria. Chi fa un processo alla Commissione fa un processo assurdo alla luce dei fatti.
In effetti, tra il 2015 e il 2018, l’Italia ha goduto di flessibilità per 30 miliardi di euro. Eppure c’è chi chiede nuova flessibilità…
Un conto è approvare flessibilità; un altro è negare le regole. Queste regole sono state accettate da tutti. Hanno una loro logica, che si applica in modo particolare all’Italia se è vero che il loro obiettivo è di limitare l’indebitamento. Un paese che si indebita non ha più margini di manovra per stimolare la crescita economica e finanziare i servizi pubblici. Rispondo ora alla sua domanda iniziale. All’Italia nel 2018 è chiesta una riduzione dello 0,3% rispetto allo 0,6% del Pil previsto dalle regole. Uno sforzo dimezzato a causa della fragilità della ripresa. Secondo le nostre stime di maggio è possibile che questo sforzo non venga raggiunto. È possibile che la situazione sia evoluta da allora. Le prossime previsioni sono attese in novembre. Naturalmente incoraggio il governo a fare in modo che l’esecuzione del bilancio sia prudente e rispettosa degli impegni dell’Italia in modo da minimizzare i rischi di deriva dei conti quest’anno. È un messaggio che ho trasmesso al ministro dell’Economia Giovanni Tria, un interlocutore che ritengo serio e ragionevole.
E per il 2019? Lo sforzo richiesto è dello 0,6% del Pil. Qual è la correzione minima necessaria per considerare l’Italia rispettosa a grandi linee del Patto di Stabilità?
Inizieremo presto le discussioni sul bilancio per il 2019. Alla luce di alcune dichiarazioni, le discussioni rischiano di non essere facili, ma farò di tutto perché siano costruttive malgrado il tono in alcuni casi scortese di queste affermazioni e malgrado l’orientamento di bilancio che fanno presagire. È nell’interesse dell’Italia controllare il debito pubblico. Lo sforzo richiesto è dello 0,6% del Pil. Si tratta di un ritorno alla normalità dopo lo sforzo ridotto previsto quest’anno sulla scia di una ripresa più solida e delle necessità di ridurre l’indebitamento, che è al 132% del Pil. Ci aspettiamo uno sforzo strutturale corposo.
Può precisare cosa intende per sforzo corposo? Le regole comunitarie aprono la porta a una deviazione dallo sforzo richiesto per un massimo di 0,5 punti percentuali su due anni.
Non voglio concludere la discussione ancor prima di averla iniziata.
Alcuni esponenti della maggioranza di governo vorrebbero presentare un bilancio che porti il deficit oltre il 3% del Pil, violando le regole europee e con il rischio di creare nervosismo sui mercati.
Il 3% del Pil non è un target, ma un tetto. L’obiettivo è risanare il debito, come ho già detto. Un disavanzo superiore al 3% del Pil provocherebbe difficoltà che non voglio neppure immaginare.
L’estate è stata segnata da tensioni tra l’Italia e i suoi partner, sull’immigrazione, sul futuro dei rapporti con gli Stati Uniti, ma anche sull’opportunità di cancellare l’obbligatorietà dei vaccini. Come reagisce alla tendenza di mettere in dubbio la ricerca scientifica?
Le nostre società sono minate da angoscia e preoccupazioni. La crisi economica è alle nostre spalle, ma ha certamente lasciato cicatrici. Molti cittadini si sentono vittime della globalizzazione. Vi è la tendenza al ripiegamento su se stessi, una tendenza oscurantista sfruttata da partiti nazionalisti che non considerano più lo stato di diritto come un punto di riferimento. Tutte le bugie, tutte le semplificazioni sono usate per alimentare questo discorso. Il dibattito sui vaccini non è solo italiano. Vi è stato anche in Francia, limitato tuttavia ad alcune personalità non politiche. Ci si dimentica che i vaccini servono a ridurre le ineguaglianze sociali poiché le malattie tendono a colpire i meno abbienti. Non si può giocare con le emozioni perché alla fine ci si comporta da apprendista stregone. Mi permetta un raffronto: una volta che si è rotto il termometro, si è lasciati indifesi.
Agli occhi di alcuni osservatori, domina una tendenza revisionista in campo morale o economico che complica non poco il rapporto tra i paesi membri.
Per quanto mi riguarda, rispetto tutti i governi e le scelte democratiche di tutti i paesi, compresa l’Italia. Lavorerò con il governo italiano nel modo più sereno e costruttivo possibile. Ma sul terreno politico, nell’ottica anche delle prossime elezioni europee, vi sono posizioni che combatterò da europeista e da socialdemocratico. Il mio sentimento è quello del presidente François Mitterrand: “Il nazionalismo è la guerra”. La guerra tra i paesi e di tutti contro tutti.
A proposito, teme che le elezioni europee del maggio prossimo sanciranno la vittoria dei partiti più nazionalisti?
Il premier ungherese Viktor Orbán e il ministro italiano Matteo Salvini hanno presentato posizioni anti-europeiste in una riunione a Milano. È necessario che gli europeisti raccolgano la sfida, ricordando come non vi sia problema oggigiorno – sia esso ambientale, economico, sociale o migratorio – che possa essere risolto da una solo paese. La solidarietà è indispensabile. Il confronto tra europeisti ed euroscettici non deve però cancellare il dibattito tra sinistra e destra fra gli stessi europeisti.
È preoccupato dalla possibilità che la dirigenza politica italiana trascini il paese fuori dall’euro senza volerlo, instaurando per esempio un braccio di ferro con i mercati nell’illusione di poterlo vincere?
Non voglio cadere nella fiction politica. Mi interessano piuttosto le discussioni che avrò con il governo italiano. Non risparmierò sforzi per definire un percorso di bilancio che sia europeo e di beneficio all’Italia. Ciò detto, le dirò una mia convinzione. Nessuno esce dall’euro proprio malgrado. Se si creano le condizioni per uscire dall’euro significa che in realtà è ciò che si vuole. Non bisogna essere ipocriti. L’euro prevede il rispetto di regole. Non rispettare le regole, significa voler uscire dall’unione monetaria.
Crede che vi siano dirigenti politici che riflettono a questa possibilità?
Non sono in Italia. Osservando da lontano, non posso escluderlo totalmente.