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Viva l’euro, ma si può migliorare. Mario Monti è «in buona sostanza» soddisfatto per i primi vent’anni di vita della moneta unica che, ricorda, «in numerose circostanze ci ha protetto». Tuttavia, a questo punto della storia, il professore – già commissario Ue e presidente del Consiglio – un poco di manutenzione alla moneta unica la farebbe. In due mosse precise: delineando una formula per lo scomputo controllato degli investimenti pubblici dal calcolo del deficit; e avviando un deciso intervento di armonizzazione fiscale, che combatta ogni sleale concorrenza basata sulle imposte.
Allora… andata come se l’aspettava?
«Direi di sì, perché immaginavo che l’arrivo della moneta unica avrebbe indotto gli Stati partecipanti ad avere bilanci più equilibrati e minore inflazione. Gli alti disavanzi a carico delle generazioni future e l’alta inflazione – “la più iniqua delle imposte”, diceva Luigi Einaudi – sono stati per decenni i maggiori mali dell’economia italiana. Con l’euro, il Trattato di Maastricht ci ha dato gli incentivi e gli strumenti per combatterli e ci siamo riusciti».
L’euro è stato accusato di favorire l’espansione economica, non in modo diffuso.
«Era chiaro dall’inizio che la crescita non sarebbe stata una conseguenza automatica dell’euro. Quest’ultimo avrebbe aiutato i paesi capaci di adottare politiche serie a sostegno della produttività delle imprese e della competitività dei sistemi produttivi. Sono cresciuti di più quei paesi che hanno saputo essere più responsabili. L’esempio classico è quello della Germania di Gerhard Schröder che nel 2003 è intervenuto sul lavoro, ha riformato l’economia, ha modernizzato il paese. E nel 2005 ha perso le elezioni. Però ha consentito ad Angela Merkel di far correre la Germania per anni, merito che la cancelliera gli ha apertamente riconosciuto».
L’Italia aveva bisogno di tutto questo rigore?
«Anche la sinistra radicale di Bertinotti, allora al governo, accettò nel 1996-1997 le misure impopolari del governo Prodi perché essere ammessi nell’euro era un importante traguardo nazionale. Sostenevo in quella fase che l’Italia avrebbe dovuto dotarsi anche di una “Maastricht interna”, con obiettivi, incentivi e sanzioni precisi per pianificare e attuare le riforme strutturali della nostra economia. Non avendolo fatto, stiamo ancora lottando con gran fatica per generare crescita e occupazione insufficienti. Da allora, volenti o nolenti, abbiamo tenuto il deficit in un’area compatibile coi limiti europei. E l’andamento dei prezzi, dopo la fiammata iniziale, è stato enormemente inferiore rispetto a quello che sarebbe stato se avessimo avuto la lira gestita autonomamente».
Gli aumenti dei listini, che l’Istat ha definito più percepiti che reali, sono stati il primo seme della campagna contro l’euro. Come è successo?
«Non credo, come è stato detto, che sia stato perché il cambio di entrata lira-euro accettato da Prodi e Ciampi fosse sfavorevole. Piuttosto, in altri paesi i governi sono stati più attenti a preparare i cittadini alla nuova valuta. Ma in sé, il cambio a 1936 si poteva perfino considerare fosse fortunato. Un cambio semplice, sostanzialmente uguale a duemila lire: bastava moltiplicare per mille e raddoppiare. Se però molti italiani, secondo quello che dicono le ricerche, nella loro spesa hanno fatto come se 1 euro equivalesse solo a 1.000 lire, hanno incoraggiato loro stessi i venditori ad aumentare i prezzi. Resta il fatto che, a parte una fiammata iniziale, nei vent’anni dell’euro l’inflazione italiana è stata ben più bassa di prima. Draghi ha ricordato che tra il 1979 e il 1992, periodo in cui la lira svalutò 7 volte rispetto al marco, l’inflazione cumulata fu del 223%, contro il 103% dei 12 paesi che avrebbero poi fatto parte dell’euro».
Nell’attuale maggioranza si sostiene che l’Italia, con la lira, avrebbe risolto tutti i suoi problemi. Lei che dice?
«Non siamo più stati sballottati come in passato. Intorno al 2010, nel mezzo della crisi finanziaria partita nel 2007, se fossimo stati in regime pre-euro, il marco avrebbe attirato capitali e si sarebbe rafforzato. L’euro ha tenuto tutti insieme e salvato l’Italia dalla divaricazione del cambio e da una forte inflazione».
Il partito della svalutazione nel nome della competitività del made in Italy è forte.
«Ogni volta che si svalutava, si aveva certamente una ripresa di competitività ma solo nel brevissimo termine. Poi scattavano altre variabili, come la scala mobile e il prezzo del petrolio. Soprattutto, si spegneva l’incentivo a ricercare miglioramenti reali di competitività, senza il doping della moneta deprezzata».
Come si è giunti a una politica che vince odiando l’euro?
«Non è così. Mi chiederei piuttosto come mai i partiti che per anni avevano contestato l’euro, arrivati alla campagna elettorale hanno molto attenuato questo tema e poi, arrivati al governo ed avendo perciò la possibilità di spingere per un’uscita dall’euro, si sono ben guardati dal farlo. Credo che 5 Stelle e Lega abbiano vinto perché hanno lanciato grandi promesse. Se chi vota crede al reddito di cittadinanza o a un pensionamento più facile, non si domanda certo se dietro c’è l’euro o la lira».
L’euro è partito senza un governo, una consapevole mutilazione. Era inevitabile?
«Rispetto a una architettura ottimale, è mancato un pilastro. È stato grave. Però la storia insegna che le cose si fanno quando si offre l’occasione. Assolvo chi ha buttato il cuore oltre l’ostacolo, abbiamo avuto dei vantaggi con l’euro, persino un poco di unione politica. Non assolvo, e anzi critico, la riluttanza dell’Ue – e in particolare della Germania – ad ammodernare il patto di stabilità».
Come ripenserebbe, lei, l’Unione monetaria?
«Per prima cosa modificherei il patto di stabilità, creando uno spazio particolare proprio per incoraggiare gli investimenti pubblici nazionali scomputandoli dal calcolo col deficit, però con criteri precisi definiti in Europa. Toglierei l’opaco lassismo discrezionale alla Juncker-Moscovici, questa politica della flessibilità gestita molto politicamente. Non giova, soprattutto agli Stati che esultano quando la ottengono, come ha fatto l’Italia con Renzi e con il governo attuale. E’ solo un’autorizzazione a mettere maggiori spese correnti a carico di figli e nipoti, pagandole in disavanzo».
E poi?
«Punterei con decisione sul coordinamento e l’armonizzazione fiscale. La Brexit, che pone altri problemi, può facilitare il progresso sulle tasse».
Il professor Bagnai è certo che la fine dell’euro salverebbe la democrazia in Europa.
«Per me, la politica è vera e seria quando compie delle scelte concrete, quando per dire “sì” a una istanza sociale, deve dire “no” ad altre. Non è stata politica seria, invece, la demagogia applicata ante litteram, ben prima dell’arrivo dei populisti, quella di molti governi italiani negli Anni Settanta e Ottanta. Accontentavano tutti e accettavano crescenti aumenti di spesa pubblica, senza aumenti corrispondenti delle entrate, per assicurare – dicevano – la pace sociale, ma soprattutto per massimizzare il consenso ai loro partiti. Ciò è avvenuto a scapito degli unici che non sedevano a quei tavoli, cioè gli italiani che non erano ancora nati, quelli di oggi, che non trovano lavoro, perché lo Stato e il paese barcollano sotto il peso del debito pubblico costruito in quei decenni».
L’euro ha cambiato la politica?
«L’ha resa meno verbosa e meno ingannatrice. E ha fatto diventare più difficile, ma più serio, l’esercizio delle scelte democratiche».
*La Stampa, 1 gennaio 2019