Modello Milano. La suggestione ritorna, s’impone, stupisce, sorprende,stabilisce le rotte affidabili della politica e anticipa il programma di una crescita possibile, rovesciando indicatori e parametri di un Paese appeso al filo dell’incertezza. Fu il refrain del centrodestra trainato da Berlusconi, con il sindaco impolitico Albertini che, insieme alle mutande da sfilata, portò in dote i grattacieli del cambiamento e la questione sicurezza. È la domanda che si fa nei dibattiti al sindaco Sala, perché dall’avamposto virtuoso del Comune si intravvede un metodo e un orizzonte politico per il centrosinistra. Resta una questione aperta per il governo e l’Italia: modello sostenibile e replicabile o locomotiva aliena nella stagione del populismo? Milano oggi corre, vola, scavalca il dato medio nazionale sulla produttività: più capitali, più studenti, più accoglienza, più solidarietà, più commercio, più turismo, più lavoro, più pendolari, più segnali di ogni tipo che certificano la ripartenza in corso, il new deal e la maturità di un processo costruito nel tempo e decollato con Expo.
Il verbale di sopralluogo restituisce l’immagine della città in movimento,coi motori accesi e la scritta sold out: in Galleria si procede a bracciate, in Duomo c’è la coda, il metrò è sotto assedio, il pubblico dei teatri batte quello di Parigi, Cadorna e Centrale sono ai massimi storici, così Malpensa e Linate, tra ondate di pendolari, turisti, manager, professionisti, ma anche poveri cristi e disperati. Tutti dentro l’ecosistema delle «vocazioni attrattive», come lo chiama l’economista Enrico Valdani, un frullatore che genera innovazione e punti di Pil e trasforma gli eventi in esperienze. «Milano ieri era grande, ma oggi agli occhi di molti stranieri appare una città sexy», dice Inge Feltrinelli, entusiasta del neo Rinascimento come gli scrittori che arrivano nella sua Fondazione. Dietro il building vetrato dell’architetto Herzog, il filosofo Salvatore Veca indica con il senso della storia l’importanza del fattore cultura nell’accelerazione di un processo quasi ventennale che ha ridato ruolo e leadership alla città. Il brand è di nuovo in movimento e la mappa dei saperi si intensifica con le ibridazioni dei creativi, che osano, stimolano, provocano. Così le palme in piazza Duomo di Marco Bay possono essere «un omaggio esotico alla città-mondo» secondo Francesca Marzotto Caotorta, fondatrice di Orticola, oppure sembrare «uno scarpone su un abito da sera», come dice Giulia Maria Crespi, ma sicuramente sono il riuscito esperimento di marketing sostenibile per il committente Starbucks, multinazionale del caffè in arrivo in piazza Cordusio.
Caos beneficoDa due anni a Milano c’è un benefico caos che anestetizza il disagio per i cantieri in corso della Linea 4 della metropolitana e porta un afflusso di capitali stranieri come non si era mai visto. Puntare su Milano non è una scommessa, è un investimento: dagli australiani di Lend Lease che hanno vinto la gara per la città del futuro nell’area Expo, al gruppo americano che ha ipotecato l’incompiuta di Porta Vittoria, agli arabi nel capitale di Garibaldi Repubblica e dell’area Falck, piovono rendering e offerte commerciali. L’immobiliare è in spolvero: 43 progetti avviati e 21 miliardi di investimento per i prossimi quindici anni. Si parla di business district, di torri terziarie, di quartieri come Symbios al Vigentino, sulla linea aperta dalla Fondazione Prada, di Innovation district, di nuovi shopping center a integrare Cascina Merlata con il laboratorio sociale Uptown. Cantieri aperti sul futuro, a cui va aggiunto il gigantesco appalto degli Scali ferroviari, il corridoio delle stazioni dismesse che da Greco-Pirelli a Porta Romana attraversa la città. È mancato solo l’aggancio all’Ema, l’agenzia europea del farmaco in uscita da Londra, che avrebbe ingigantito il peso scientifico-industriale di Milano, in Europa e nel mondo: ma qui la debolezza non è stata locale, anzi, Comune e Regione hanno fatto un buon gioco di squadra sulla candidatura. È mancato il peso politico dell’Italia nella trattativa finale, con il pasticciato sorteggio che ha favorito Amsterdam, lasciando ombre e polemiche sulla Commissione.
È lo strabismo dell’euforia l’unica incognita per un modello che funzionae aggiorna sfide e obiettivi: l’acqua dei Navigli che torna verso il centro, l’allargamento dell’area a pagamento per le auto, il trasloco della Statale da Città Studi all’area Expo, il biglietto del tram a due euro, la metropolitana fino a Monza… Lo strabismo da città globale, che sfoggia primati ma non contagia proprio tutti: c’è una fetta importante di esclusi, di spettatori marginali, di attori trascurati. Milano città aperta è quella dei diritti alle minoranze e dell’accoglienza alle ondate migratorie, ma basta salire un giorno sulla circolare, la linea dei bus 90-91, per guardare in faccia le difficoltà dell’integrazione. O sbirciare nei sottopassi della Stazione e dei cavalcavia, trasformati in dormitori per disperati. O mettersi in viaggio verso i quartieri estremi: Rogoredo, Giambellino, Stadera. Gli squilibri provocati da un’immigrazione fuori controllo mettono alla prova la città del bene e la straordinaria rete del volontariato che ruota attorno a Fondazione Cariplo, Caritas e Comune. «A volte sembra di vedere una doppia cittadinanza che si tocca con mano nelle periferie, quella di serie A e quella di serie B, che penalizza gli immigrati più giovani candidati a diventare nuovi milanesi», dice don Giovanni, parroco in prima linea al Gratosoglio.
Le due cittàLe case Aler restano la problematica eredità di gestioni inefficienti e politiche sbagliate. Aumenta la popolazione anziana, cresce la fascia dei nuovi poveri con un reddito modesto da lavoro, il welfare privato supporta gli interventi di sostegno del pubblico, ma non basta. È difficile creare sinergie quando la città ridistribuisce ancora troppo poco di quel che trasforma in valore. A volte le Milano sembrano due, perché disagi e sofferenze non viaggiano sulle rotte del futuro. Ruben, il ristorante solidale che Ernesto Pellegrini, ex presidente dell’Inter, ha aperto al Lorenteggio per un debito morale con un povero bracciante morto assiderato in una baracca, è un altro osservatorio che aiuta a leggere il dramma delle nuove povertà. Ogni sera è aperto alle categorie dei disoccupati dei separati, dei senza casa, dei senza famiglia. Non è la mensa dei poveri, ma un ristorante per non sentirsi poveri: un luogo per la dignità dove si paga un euro. Quattrocento coperti ed è sempre pieno. «In un Paese civile tutti hanno il diritto di non essere lasciati soli», spiega Pellegrini. Anche questo è un modello, poco urlato, molto understatement, un modello di solidarietà che Milano offre a un’Italia che non deve andare a due velocità.