I migranti morti nel Mar Mediterraneo sono diventati ormai dei numeri vuoti, ascoltati con noia durante i Tg della sera. Nell’Italia dei porti chiusi il fenomeno sembra debellato, ma anche se diminuisce il numero degli arrivi aumenta la percentuale di morti in mare. Secondo l’Unhcr sono 424 i morti e dispersi nel Mediterraneo che hanno cercato di raggiungere l’Europa. Ventitré morti a settimana, tre al giorno. Alcuni di questi corpi senza nome li identifica l’anatomopatologa Cristina Cattaneo a capo del Labanof (Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense), il braccio tecnico dell’ufficio del commissario straordinario per le persone scomparse del ministero dell’Interno. Un progetto pilota, unico in Europa per ridare un’identità ai morti in mare. Per ora sta lavorando sui corpi dei morti nei naufragi di Lampedusa del 3 ottobre 2013 e del 18 aprile 2015, quella che ha causato oltre 800 morti. Per raccontare la sua esperienza ha scritto il libro Naufraghi senza volto. Dare un nome alle vittime del Mediterraneo (Raffaello Cortina Editore, 2018), finalista del premio letterario Galileo per la divulgazione scientifica, che si terrà a Padova il 10 maggio. Dal ragazzo ghanese con addosso due tessere: una della biblioteca, l’altra da donatore di sangue, al giovane eritreo con in tasca un sacchetto di terra per non scordarsi del proprio Paese fino alla storia che ha riempito le pagine dei mass media di tutto il mondo del bambino del Mali che aveva nella cucitura interna del giubbotto una pagella scolastica scritta in arabo e in francese. «Identificare il cadavere ormai è dato per scontato, ma abbiamo più di ventimila morti nel Mediterraneo», spiega Cattaneo.
Cattaneo, perché continua a identificare i morti nel Mediterraneo?
Dai tempi di Omero sappiamo che identificare i morti è un aspetto centrale della nostra cultura. Non tanto per chi è morto ma per la salute mentale dei vivi. Una madre che cerca il corpo del figlio morto e non lo trova non può iniziare a elaborare il lutto. L’identità è importante anche per motivi pratici. Ci sono ostacoli amministrativi riguardo gli orfani che non riescono a fare il ricongiungimento con familiari che stanno in Europa e magarai sono gli unici parenti rimasti perché i genitori sono morti sui barconi e non esistono i loro certificati di morte. Quando c’è un disastro in un aereo occidentale corriamo tutti per capire se i nostri cari sono coinvolti, ma nessuno sa niente di questi migranti, né si interessa. Siamo di fronte al più grande disastro umanitario dalla seconda guerra mondiale, abbiamo più di ventimila morti nel Mediterraneo e nessuno muove un dito per identificarlo. Sono morti senza identità.
Lei fa autopsie per lavoro tutti i giorni, cosa ha provato quando ha esaminato il corpo di questi migranti morti in mare?
I morti raccontano il loro passato in maniera molto più eloquente a volte rispetto ai vivi. Abbiamo fatto autopsie per tre mesi collaborando con dodici università, la Marina Militare e i vigili del fuoco che avevano tirato fuori le salme. Abbiamo toccato i corpi di queste persone e frugato nelle loro tasche per dargli un’identità. Quello che abbiamo trovato, dalle pagelle, alla tessera di donatore del sangue o quella bibliotecaria ci conferma che questi sono anche i nostri ragazzi, adolescenti normali con sogni e speranze, come i nostri figli.
Cosa ci raccontano queste storie?
Ci raccontano una storia di umanità che per troppo tempo abbiamo deciso di ignorare, così come i nostri avi ignoravano le navi negriere nel Settecento. In queste imbarcazioni viaggiavano e viaggiano cinque persone per metro quadro e sono naufragate poco prima di arrivare nell’Europa che si vanta di essere la terra dei diritti umani.
Quanti migranti avete identificato finora?
Quaranta corpi identificati nel naufragio del 2013 e solo due per quello del 2015. Non è facile, solo da poco tempo siamo arrivati a identificare il secondo corpo. Ci vorrà ancora qualche mese per completare gli altri ma stiamo raccogliendo dati dai parenti. Anche se questi numeri sono molto bassi sono importanti perché dimostrano che l’identificazione si può fare. Con difficoltà ma si può fare. Per ora sappiamo con certezza che circa la metà sono adulti tra i venti e i trent’anni. L’altra metà sono adolescenti dai dieci ai diciasette anni.
Cos’ha trovato nelle tasche di quei ragazzi?
Dagli auricolari per ascoltare la musica alle magliette del Manchester United, fino ai sacchetti della loro terra per ricordarsi del loro paese di origine che stanno lasciando, brioche, datteri. Sono gli oggetti che hanno tutti i giorni i nostri ragazzi quando li mandiamo a scuola. Solo che loro sono morti per annegamento.
Cosa succede al corpo umano quando sta annegando?
Purtroppo non è una morte immediata, avviene per asfissia. Quindi si perde costantemente ossigeno per cinque, anche sei minuti, fino alla morte. Tanto, tantissimo tempo se ci pensa.
Secondo lei il governo sta gestendo al meglio l’arrivo dei migranti?
Non ho le basi per capire quale potrebbe essere la soluzione. Sono per l’accoglienza ma questo è il mio modo di pensare, la mia sensibilità. Non è un pensiero razionale. Ma forse è anche per questo che stiamo facendo questo progetto: dare un nome a queste persone. Perché se si pensa a un signor X è più facile girar la faccia. Quando si ha di fronte un nome e un cognome diventa un po’ più difficile.
Eppure il ministro dell’Interno dice che sono diminuiti gli arrivi e quindi i morti in mare.
Vero ci sono meno morti rispetto al passato, ma ora perde la vita un migrante su tre che arrivano, prima era uno su otto. La verità è che non sappiamo cosa sta succedendo nel mediterraneo. Una volta a pattugliare non c’erano solo le navi delle Ong ma anche la Marina Militare salva delle vite. Ora non è più così. E non esiste a livello europeo un progetto come il nostro di identificazione, ma l’Europa non ci ascolta, non ci presta attenzione.
Perché secondo lei siamo così indifferenti alle morti dei migranti in mare?
Perché li consideriamo morti di serie B, diversi dai nostri cari che perdono la vita. La stessa discriminazione che abbiamo per i vivi la rivolgiamo anche ai morti. C’è chi pensa che sia inutile identificarli perché da noi manca la cultura dell’identificazione, ma per una madre e un fratello riconoscere il proprio caro è tutto. Io lo faccio perché lo sento come mio dovere di cittadina ma anche perché ho fatto il giuramento di Ippocrate di aiutare il prossimo.
*Linkiesta, 9 maggio 2019