Il caso tedesco non è ancora risolto: Schulz ha davanti a sé un percorso alquanto accidentato per ottenere l’accordo dell’intero partito socialdemocratico: deve avere l’approvazione di tutti i deputati dell’Spd e superare anche un referendum tra gli iscritti. Ma se queste due tappe non fossero positive, la Spd avrebbe un futuro assai tormentato; la vittoria finale di Schulz è probabile, anche se ci vorrà ancora del tempo per l’accordo definitivo e la ratifica della Grande Coalizione. Il punto più interessante della situazione politica è tuttavia un altro: dato per scontato il patto con la Spd, Merkel ha avuto un incontro del massimo interesse con Macron sul rientro della Germania nella struttura europea e sul duumvirato con la Francia.
Da diversi mesi Merkel era stata interamente assorbita dai problemi pre e post elettorali, sicché non aveva potuto occuparsi delle questioni europee. Questa sua assenza è cominciata ancora prima della competizione nazionale perché iniziò con elezioni andate piuttosto male in alcune Regioni della Germania. Ora però, avendo raggiunto un accordo di massima con Schulz, che andrà confermato probabilmente entro una ventina di giorni, l’interesse della cancelliera (che tuttavia non ha ancora ottenuto l’insediamento in questa carica) è tornato di nuovo verso l’Europa. C’è stato appunto un incontro con Macron, che ha sempre seguito con interesse quello che stava accadendo a Berlino.
Ma nel frattempo Macron aveva assunto pieni poteri ( chiamiamoli così anche se non è un termine esattamente conforme) in Europa. Del resto già da tempo la Francia ha conquistato in Europa un peso politico maggiore della Germania. Questa situazione deriva da alcune circostanze di fondo: i poteri di Macron sono molto simili a quelli del presidente degli Stati Uniti. Negli Usa il governo è presidenziale, ma ci sono un Congresso e un Senato che hanno forti diritti di controllo e anche possibilità di veto sulle leggi o sulle nomine di alti dignitari dello Stato da parte del presidente. In Francia i poteri di Macron equivalgono quasi interamente a quelli del presidente americano, ma con una differenza: il controllo del Parlamento sulle attività di governo è molto più tenue di quello del Congresso di Washington. Per queste ragioni Macron è diventato il perno dell’Unione europea e probabilmente lo resterà anche quando Merkel riassumerà la carica di cancelliera.
Nel frattempo Macron sta parlando con tutti gli interlocutori, i capi di governo delle nazioni principali, e con essi concorda politiche soprattutto mediterranee alle quali la storia di Francia è da tempo interessata: lì erano le sue colonie molto vaste e quasi tutte collocate sulla costa del Maghreb. L’Italia fa parte dei Paesi coinvolti nelle trattative: la Libia fu dal 1911 una colonia italiana e tale rimase fino alla caduta del fascismo. Successivamente la nostra politica è ridiventata amichevole nei confronti della Libia di Gheddafi. Dopo la fine del regime, quel Paese è entrato e ancora sta in una situazione totalmente disgregata. A Tripoli c’è un governo, ma ci sono opposizioni a volte anche violente; a Bengasi c’è un generale che governa in buona parte con le armi e con netta rivalità verso il governo tripolino; a Tobruk c’è un Parlamento che non viene riconosciuto da tutte le regioni libiche. Lo stato di confusione è fortemente aumentato per il semplice fatto che la maggior parte degli immigrati verso l’Italia provengono proprio da quelle regioni. Inutile diffonderci qui a lungo sull’andamento dell’immigrazione. Sappiamo soltanto che quel tema è molto abilmente vissuto e gestito dal nostro ministro dell’Interno Marco Minniti. Sulla sua attività in Libia, ma pure su tutta la costa mediterranea dal Marocco fino all’Egitto, con la Libia come asse centrale di questa politica sulle migrazioni, Minniti ha ormai raggiunto accordi positivi che sono in corso di attuazione.
Questo problema interessa direttamente anche la Francia e si accompagna, e in qualche modo si integra, con la politica di Macron in Europa. Da questo punto di vista anche per lui il tema libico è di grande interesse. Ne ha parlato a lungo con Renzi, che andò a Parigi per incontrarlo, e poi ha continuato il discorso in varie occasioni con Gentiloni. Ma proprio la scorsa settimana Macron è venuto a Roma ospite del premier con il quale ha discusso a fondo la questione libica e la strategia che Gentiloni e Minniti stanno gestendo nel modo migliore. Ora la Francia si è in questo caso unita a noi e ha deciso di gestire insieme all’Italia una politica che potremmo chiamare mediterranea. *** Torniamo all’Europa. Si direbbe che la politica europea sia in questa fase di centrosinistra. Cito a questo proposito quanto ha scritto sul giornale di ieri la nostra corrispondente da Berlino Tonia Mastrobuoni: « Diceva Willy Brandt che non ha senso conquistare una maggioranza per i socialdemocratici se il prezzo è rinunciare a essere socialdemocratici. È il complesso che affligge la Spd da una dozzina di anni, da quando l’ambiziosa riforma sociale voluta da Gerhard Schroeder e considerata da molti troppo liberista».
Quest’ultimo giudizio mi sembra fondamentalmente sbagliato: Schroeder non fu mai liberista, ma liberalsocialista, che è cosa del tutto diversa.
Un’altra citazione concernente lo stesso problema merita di essere fatta: è anch’essa di ieri e l’autore è la nostra firma da Bruxelles Andrea Bonanni: «I padri dell’Olimpo fondatori dell’Europa sono Kohl e Mitterrand, Schuman e Adenauer. In fondo cosa potremmo volere di più?» Il ricordo di quando accadde nel momento della fondazione di un’Europa unita è molto significativo e postula una leadership franco-tedesca. Ma l’Italia dov’è? Non c’è? L’Italia c’è, eccome. Ci siamo dalla nascita della Comunità del carbone e dell’acciaio e dal Trattato di Roma che ratificò l’esistenza della Cee. Ci siamo dalla costituzione federale dell’Europa, discussa e approvata da un’assemblea costituente guidata da Giscard d’Estaing e Giuliano Amato. Ci siamo dall’adesione tra i primi sei fondatori dell’Euro, il cui trattato fu firmato da Carlo Azeglio Ciampi e Romano Prodi. E infine dobbiamo ricordarci del Manifesto firmato da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni nel 1941, quando erano tutti e tre al confino nell’isola di Ventotene. E infine ci siamo ancora con i fratelli Rosselli, antifascisti ed europeisti, morti in Francia nel 1937, che avevano adottato lo slogan “Giustizia e Libertà”.
Questa è la presenza dell’Italia nella fondazione dell’Europa unita. Non altrettanto può dirsi della Francia di de Gaulle e di Mendès-France che rifiutarono la presenza militare di un esercito europeo e che anni più tardi bloccò la costituzione europea, soprattutto per effetto del referendum in cui la maggioranza dei francesi votò contro quel trattato. Per rispetto di chi l’aveva approvato lo trasformarono, salvandone alcuni principi più teorici che applicabili concretamente, e lo chiamarono, per dargli almeno un’importanza verbale, Trattato di Lisbona. Quanto alla Germania, essa ha praticato un’apertura economica ma anche politica nei confronti della Russia e dei Paesi dell’Est, tutti già guidati dal comunismo sovietico. Questa politica è venuta completamente meno solo con Merkel e con lei la Germania è diventata completamente europea.
Parliamo d’altro: questioni di politica italiana, anzi di elezioni amministrative in due Regioni: nel Lazio e in Lombardia. Roba da poco, anzi da pochissimo e tuttavia di significato che merita una domanda: che cosa è diventata la sinistra italiana, soprattutto nel Nord del nostro Paese?
Personalmente questa domanda l’ho posta più volte e mi sono azzardato a dire che la sinistra — antica o moderna che sia — non c’è più. Ci sono, naturalmente, alcune personalità che hanno costruito una sinistra moderna. Che fosse nuova probabilmente era vero, ma non permanente, bensì effimera. Tutto è soggetto nella vita al cambiamento, ma quanto dura la continuità? Occorre distinguere tra l’individuo e la collettività: tutto è effimero, ma i tempi di durata variano tra l’individuale e il collettivo. Secondo Eraclito l’effimero dura un attimo. Lui lo chiama il divenire.
Il divenire politico non dura un attimo, può durare alcuni anni. Forse un anno, forse una generazione, cioè 25 anni. Nelle Regioni e ancor più nei Comuni dura anche meno. Nel Lazio vincerà probabilmente Zingaretti, anche se l’alleanza tra lui e la sinistra di Pietro Grasso non si dovesse fare, come invece sembra possibile. Questa è dunque la situazione. A Milano lo scenario invece è diverso: la città e l’intera Lombardia sono sensibili soprattutto all’economia, agli affari, al capitalismo. Quelli cambiano in due diversi modi: concretamente cambiano con velocità perché sono largamente influenzati dalla tecnologia. Ideologicamente, viceversa, il cambiamento è assai più lento: la Lombardia e il suo capoluogo sono di valori moderati e addirittura in molti casi conservatori. A Milano e in Lombardia l’ipotesi che le prossime elezioni possano essere vinte da una sinistra di nuovo unita per l’occasione non esiste. Le forze dominanti sono la destra di Salvini e quella di Berlusconi. Anche se spesso litigano tra loro.
Il Pd lombardo si affida al sindaco di Bergamo Giorgio Gori. È naturale, Gori è il più dinamico e ha vissuto esperienze diverse: la politica, la gestione di capitali, l’attività imprenditoriale, situazioni moderate oppure l’opposto. Gori può anche sperare di vincere queste elezioni, ma è una speranza quasi impossibile. Ecco perché Renzi non lo abbandona: perché lui può raggruppare parecchi voti, non per la vittoria nelle regionali ma per le elezioni politiche. Abbandonarlo sarebbe un errore, ma questo Renzi non lo farà.