Una ventina di anni fa un lungimirante economista tedesco pubblicava un libro dal titolo Hidden Champions (Campioni nascosti) per raccontare i meriti e le virtù di una ampia coorte di medie imprese che avevano saputo conquistare con determinazione e discrezione posizioni di leadership a livello globale. Queste medie imprese non avevano necessariamente marchi riconosciuti, non partecipavano alla vita pubblica, non erano al centro del dibattito. Anno dopo anno avevano costruito il proprio successo grazie a poche e semplici regole che contraddicevano molti dei credo della teoria manageriale mainstream.
Il centro studi di ItalyPost, a vent’anni di distanza, ripropone un percorso di ricerca analogo che ha come obiettivo quello di raccontare i campioni dell’economia italiana che hanno saputo crescere e consolidare la propria posizione competitiva in un decennio di profonda crisi economica. Molti di questi campioni hanno saputo prosperare in settori come la manifattura considerati come impraticabili e hanno adottato una condotta gestionale decisamente eterodossa rispetto alle indicazioni fornite da tanta pubblicistica di settore.
Il lavoro di ItalyPost è prezioso perché ci contente di riconciliare immagini che spesso facciamo fatica a comporre in un quadro unico dotato di senso. Da un lato la rappresentazione delle nostre imprese che i media tratteggiano come in costante ritardo sull’evoluzione delle tecnologie, renitenti ai dictat del digitale ed eternamente incagliate in modelli di governance del tempo che fu. Dall’altro i grafici e le tabelle che da diversi mesi a questa parte parlano di crescita dell’export, di rilancio del prodotto interno lordo e persino di aumento dell’occupazione. Finalmente abbiamo a disposizione una lista di campioni che contribuiscono alla competitività del paese proponendo un modello di impresa che non avrà la visibilità di imprese come Google o Facebook ma che ha il merito di contribuire al ruolo dell’Italia nella divisione internazionale del lavoro.
Di questi campioni nascosti, tre sono gli aspetti che meritano di essere ricordati. Il primo riguarda la dimensione del fare manifatturiero. Quando la letteratura economica spingeva le imprese a liberarsi della produzione per concentrarsi su ricerca e vendite, queste imprese hanno pazientemente costruito l’eccellenza di prodotto che ora gli viene riconosciuta grazie a un presidio del fare che ha del miracoloso. L’unicità, diceva Simon, può venire solo da ciò che si fa in casa: “richiede profondità e una certa ritrosia all’outsourcing”. Che l’abbiano letto o meno, molti imprenditori italiani si sono allineati al principio.
Un secondo tema riguarda il rapporto con il mercato. Di queste imprese colpisce la fedeltà e la perseveranza alla propria clientela, un aspetto che ha contribuito in modo decisivo a stabilire relazioni di apprendimento e di innovazione costruiti sulla base di partnership consolidate. I campioni hanno assecondato le richieste della committenza più esigente, hanno dimostrata flessibilità e capacità di adattamento. Il dialogo costruito con i propri clienti ha rappresentato il presupposto per un percorso di innovazione incrementale che, nel medio termine, ha fatto la differenza. In un mondo ossessionato da big data e sistemi di intelligenza artificiale, queste imprese hanno saputo ascoltare e dare peso alle richieste dei propri interlocutori. Hanno fatto tesoro di questi small data per costruire in modo discreto la propria insostituibilità.
Un’ultima considerazione riguarda le formule organizzative e la leadership esercitata dal management. I campioni italiani hanno superato da tempo il modello padronale che ha segnato una fase di crescita della piccola e media impresa italiana per sposare dinamiche manageriali orientate alla qualità e alla riduzione degli sprechi. Queste imprese hanno costruito il loro modello lean puntando su risorse umane di qualità su cui hanno investito con determinazione. Hanno scommesso soprattutto su uomini e donne che oggi costituiscono i depositari di una cultura tecnica che rimane un asset competitivo fondamentale (che molto ci accomuna con i champion tedeschi).
Questi aspetti distintivi, insieme ad altre caratteristiche che sono ben elencate nella ricerca, sono stati coltivati in un contesto di relativa distanza dalla politica e dalle associazioni di categoria. Una visibilità, una distanza consapevole da riflettori e passerelle. La ritrosia a partecipare alla vita pubblica ha contribuito a consolidare un percorso di differenziazione che oggi viene riconosciuto come un valore. I campioni italiani non hanno assecondato l’ipervelocità della rete; hanno rispolverato il valore di pazienza e perseveranza. I nostri campioni non assomigliano alle imprese-piattaforma che hanno segnato la new economy americana, non hanno capitalizzazioni da start up, non hanno la visibilità degli unicorni ma hanno il merito di dare lavoro, consolidare relazioni sociali stabili, sviluppare competenze uniche a livello internazionale.
A pochi mesi dalla conclusione di una campagna elettorale che ha dedicato pochissima attenzione alle imprese e al futuro del lavoro dare visibilità a questi campioni è un’impresa meritoria. Non tanto perché queste imprese siano la soluzione definitiva ai tanti problemi della nostra economia, quanto piuttosto perché testimoniano di un’Italia che con discrezione e determinazione ha saputo trovare la propria via in mondo sempre più competitivo e internazionale. Spetta a noi riconoscere il valore di questi percorsi e costruire attorno a queste esperienze un contesto in grado di sostenere crescita economica e lavoro di qualità.