La parola giovani è evocata in molti dibattiti, oggetto di infinite discussioni. Quanto siano differenti dalle successive generazioni, risulta essere un esercizio confortante o meno. “Sono totalmente diversi da noi”: è un’affermazione che include la rappresentazione di quanto noi fossimo migliori, di quanto il presente abbia cambiato le regole del gioco, in peggio. “Sono totalmente uguali a noi” contiene invece la speranza che il tempo non sia passato e la considerazione che i problemi siano sempre gli stessi. Diversi o uguali? Meglio noi o meglio loro? Dare una risposta mi sembra difficile, oltre che inutile. Ogni generazione ha i suoi pregi e i suoi difetti. Impossibile fare una benchmarking tra passato e presente. Occorrerebbe riprogrammare il passato con le caratteristiche del presente. Operazione fattibile solo nei film o nei video giochi. Rimane il fatto che oggi, rispetto al passato, vi sia una tendenza – quasi maniacale – ad occuparsi di queste domande. In realtà, se si approfondisce la questione, si scopre che risponde ad un bisogno di autoanalisi più che riflettere l’esigenza di una valutazione oggettiva delle attuali generazioni. Nel raccontare le differenze “tra noi e loro” emerge un bisogno di capirci, prima di tutto. Capirsi è un atto necessario e che tutti ci portano a fare. Tutta la letteratura dell’ultimo secolo è un continuo richiamo a guardarsi dentro. Già nel 1864 Dostoevskij, in “Memorie del sottosuolo”, anticipa Freud, perché passa dall’analisi dell’agire sociale tipica dei romanzi di Flaubert, Stendhal a Tolstoj a quella esistenziale (merita di essere letto, per chi è appassionato a questo periodo l’ultimo libro di Alessandro Piperno “Il manifesto del libero lettore. Otto scrittori di cui non so fare a meno” – Mondadori). Capire i giovani, o avere la presunzione di farlo, è prima di tutto un tentativo di capire la nostra generazione, spesso nel tentativo di discolparsi. Alla classica domanda “perché i giovani non trovano lavoro?”, facile arriva la risposta: “i giovani non hanno la voglia di cercarlo”. “Perché i giovani sono senza passioni?”, automatica si innesta la risposta: “i giovani sono troppo immersi nei social media e nella playstation”. Poi si scopre dalle statistiche che i grandi frequentatori di Facebook, e dei giochi virtuali, sono più i cinquantenni che i ventenni. In una “Bustina” di Umberto Eco del 2011, capeggiava un titolo tanto ironico da essere eloquente: “Come uccidere i giovani con reciproco vantaggio”. Era un invito fatto ai giovani ad uccidere i vecchi, per non dover pagare loro le pensioni. Contemporaneamente, vi era contenuto un incitamento ai vecchi ad uccidere i giovani per non essere costretti a lasciare a loro i posti di comando. Nei fatti, il primo invito, sembra non essere stato applicato, il secondo incitamento sembra essere quanto mai reale.
Se le domande sono più interessanti delle risposte
Se c’è una cosa che mi irrita, sono i libri dove l’autore afferma che “voi dovete comportarvi così” o dichiara che “voi la pensate in questo modo”. E lui dov’è? Lui non è parte del problema? Lui è sempre in grado di scegliere le vie giuste, le soluzioni migliori? Detto questo, avrei dovuto smettere di leggere “La parola ai giovani” di Umberto Galimberti. Il libro contiene 72 risposte ad altrettante domande che il filosofo- psicanalista veneziano ha scritto nel corso degli anni nella rivista di moda “D”, il dorsale del sabato di “La Repubblica”. Ogni rivista che si rispetti deve contenere il dialogo con il lettore. Era un modo primordiale per rendere le riviste interattive, creando una relazione tra chi legge e chi scrive, prima che facesse la sua comparsa internet e i blog. Chi riesce ancora a farsi stampare, lo fa ancora. Normalmente sono rubriche relative “agli affari di cuore”, Galimberti è un generalista con il vizio di chiamarsi fuori dall’epoca in cui stiamo vivendo. Lo posso scusare per due motivi: la sua età lo porta a guardare l’attuale situazione con distacco; compie – spesso – analisi su cui si può più o meno convenire, ma essendo uno dei pochi filosofi che trovano spazio nei giornali, merita sempre di essere letto. Il libro contiene, in versione integrale, visto che le esigenze di spazio nella rubrica comportano frequenti tagli, le domande che giovani, e non, hanno posto a Galimberti, e questo è uno spaccato molto interessante. Emergono paure, ansie, insicurezze, ma anche sogni, voglia di cambiare il mondo, fiducia nel prossimo. Uno spaccato di assoluto interesse: come avere uno di quei focus group tanto amati dai “markettari” per capire quali prodotti spingere e quali abbandonare. Il risultato è fatto più da speranze che da delusioni, con tante contraddizioni. A dimostrazione, se ce ne fosse il bisogno, che la generazione millennial è composta da una macedonia di aspirazioni e depressioni. Purtroppo, anche qui la polarizzazione è una realtà: chi è molto pessimista, chi è molto ottimista. Una cosa è certa: in alcuni casi, chi scrive ricorre ad un italiano forbito, in altri casi ad uno stile più semplice. Sempre con un tratto pulito che sembrerebbe in forte contrapposizione con le indicazioni che ci vengono dalle ricerche Pisa o Invalsi, dove emerge che i giovani non sanno mettere in riga l’italiano. È anche vero che il target di chi scrive a queste rubriche è sicuramente legato ad un/a ragazzo/a che ha un certa dimestichezza con la scrittura. Uno che, indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza, è in grado di fare un buon uso della penna, o di word.
La piramide di Nietzsche, Freud e Anders
Il taglio che Galimberti offre al suo lettore poggia su un triangolo di autori: alla base c’è Nietzsche, ai lati Freud e Günther Anders. La base è costituita dalla visione niciana del nichilismo: la mancanza del fine e di risposta ai perché, sono decisivi per la trasmutazione dei valori, posto che i valori non sono indissolubili e preordinati. Galimberti, dopo aver scritto nel 2007 “L’ospite inquietante. Il Nichilismo e i giovani” (Feltrinelli), ritiene che stiamo passando da un “nichilismo passivo” ad un “nichilismo attivo” di chi non misconosce e non rimuove l’atmosfera pesante del nichilismo senza scopo e senza perché, ma non si rassegna di non spegnere i propri sogni. Una mera visione di sopravvivenza? Nietzsche aveva predetto l’epoca nichilista con tutta la sua tragicità che comporta ma ha offerto anche il beneficio dell’illusione:
“Se illusioni e maschere ci consentono di vivere, liberiamo tutte le illusioni, indossiamo tutte le maschere.”
Freud non manca nella geometria di Galimberti perché in quella ricerca dell’io ciò che non si può dire abita nell’inconscio. Per Galimberti, nella scuola, più che nella famiglia, risiede il pilastro del futuro dei giovani. Molti sono gli inviti ad una scuola diversa, ad insegnanti prima di tutto mossi dalla loro capacità di coinvolgere i ragazzi. In questo senso Freud, già nel 1910 nella sua opera “Contributi a una discussione sul suicidio”, scriveva:
“La scuola deve fare più che evitare di spingere i giovani al suicidio, essa deve creare in loro il piacere di vivere e offrire appoggio e sostegno in un periodo della loro esistenza in cui sono necessitati dalle condizioni del proprio sviluppo ad allentare i loro legami con la casa paterna e la famiglia. Mi sembra incontestabile che la scuola non faccia ciò e che per molti aspetti rimanga al di sotto del proprio compito, che è quello di offrire un sostituto della famiglia e di suscitare l’interesse per la vita che si svolge fuori nel mondo”.
Per Galimberti passione e desiderio, che proprio Freud considerava instabili e mutevoli, sono le forze per superare questa stagione nichilista in cui il nulla è l’attore principale. Da questo punto di vista Galimberti rischia di dimenticare che proprio sulle passioni e i desideri – veri o falsi, tristi o gaie che siano – si fonda quella società capitalistica e tecnocrate che lui contesta.
Passioni vere e passioni false
L’ultimo lato del triangolo galimbertiano è dedicato a Günther Anders con la sua critica alla tecnica che non sa altro che funzionare in cui la razionalità e l’utilità sono l’unica vera espressione. Günther Anders, trasferitosi in America per sfuggire alle persecuzioni naziste, scriveva al suo maestro Heidegger:
“Lei mi ha insegnato che l’uomo è il pastore dell’essere, ma io qui alla Ford mi sento il pastore delle macchine.”
Certamente la tecnica ha assunto una sua potenza che sta conducendo l’uomo verso una ricerca all’infinito della sua perfezione. Non si può non riconoscere che in questa straordinaria potenza vi è una manifestazione di bellezza che appare tutta nuova. Massimo Cacciari, in un articolo scritto per Robinson, lo scorso 31 dicembre 2017, è arrivato a sostenere come la bellezza della tecnica vada oltre alla sua utilità e alla sua efficienza, tanto che all’opposto
“è la metafisica potenza della tecnica in quanto tale, irriducibile a mero composto di mezzi e strumenti, a colpire e a suscitare quella cosciente meraviglia che fa esprimere il giudizio è bello”.
Per Cacciari, però, rimane il fatto che questa meraviglia si esprime quando la tecnica appare libera da ogni condizionamento economico e politico perché frutto della sublimità dell’intelligenza. Se Cacciari e Galimberti trovano un terreno comune, è, quindi, quello del nichilismo attivo. Unica speranza che lo stesso Nietzsche ci ha descritto così mirabilmente ne “La Gaia scienza”:
“No. La vita non mi ha disilluso. Di anno in anno la trovo sempre più ricca, più desiderabile e più misteriosa –da quel giorno in cui venne a me il grande liberatore, quel pensiero che la vita potrebbe essere un esperimento di chi è vòlto alla conoscenza – e non un dovere, non una fatalità, non una fede. (…). La vita come mezzo di conoscenza. Con questo principio nel cuore si può non soltanto valorosamente, ma anche gioiosamente vivere e gioiosamente ridere.”
Titolo: La parola ai giovani
Autore: Umberto Galimberti
Editore: Feltrinelli
336 pp; 16,50 Euro