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Un capitalista, dice Marx nella più famosa tra le sue opere, ne ammazza sempre molti altri. Potrebbe essere un buon riassunto del crac di Lehman Brothers, banca d’affari fallita il 15 settembre 2008, dalla cui storia Stefano Massini ha tratto prima una pièce teatrale e poi il bellissimo Qualcosa sui Lehman (Mondadori). A lui abbiamo chiesto cosa rimane della più grande bancarotta della storia degli Stati Uniti.
Come si è avvicinato a Lehman?
Mi colpì come un titano dell’economia avesse potuto collassare in così poco tempo. Ricordo i racconti delle lunghe notti in cui si era deciso, nei consigli di amministrazione, prima il tentativo di salvataggio, poi la bancarotta: pensai che l’immagine di questi grandi finanzieri riuniti per notti intere attorno a un tavolo fosse molto teatrale. Quando cominciai a lavorarci, mi resi conto che più del fallimento, era interessante quello che stavo scoprendo della vicenda della famiglia. Lì mi venne l’idea di scrivere la storia di che cosa era caduto con la banca Lehman.
Il suo libro inizia quasi due secoli fa, a metà dell’Ottocento, in un altro continente. Cosa l’ha colpita di più durante le ricerche?
In ogni storia ci sono elementi potenzialmente interessanti. Poi esistono poche storie che non solo hanno quegli elementi, ma contengono un valore simbolico fortissimo e sono in grado di raccontare un’intera epoca. Diversamente da altre, pur interessanti, dinastie bancarie come Goldman Sachs o Rothschild, la vicenda di Lehman contiene una parabola. Inizia con il commercio dei tessuti, il cotone first choice e poi il tabacco, in una bottega dell’Alabama. Parliamo dei figli di un commerciante di bestiame della Baviera: da qui, nell’arco di poco tempo, la famiglia fa un passaggio che secondo me anche la nostra civiltà occidentale ha fatto, cioè un cammino che dalla concretezza va verso l’astrazione.
Mayer Lehman, nel libro, lo racconta così: “Quando stavamo nel commercio la gente ci dava i soldi e noi davamo in cambio qualche cosa. Adesso che siamo una banca, la gente ci dà lo stesso i soldi ma noi non diamo in cambio niente”.
Esatto. Si arriva, tramite vari passaggi, al denaro che finanzia altro denaro, senza che al fondo ci sia nessun bene reale. La storia della famiglia Lehman contiene questo elemento di dematerializzazione.
Profetico?
I profeti sono coloro che anticipano. Nel mito greco, il dramma di Cassandra è che lei vede prima ma nessuno la crede: il dramma del profeta è sempre non essere creduto. La storia dei Lehman contiene diversi elementi di ‘profezia’, oggi lo possiamo constatare benissimo. Sono sempre stato del parere che nella letteratura noi cerchiamo alla fin fine qualcosa che ci insegni ad affrontare le questioni di ogni giorno. La storia dei Lehman è molto utile: serve a capire dove sono stati commessi gli errori.
Perché ha scelto di raccontare una storia almeno geograficamente lontana, quella appunto del crac Lehman, e non la storia del Monte dei Paschi?
Me lo hanno spesso chiesto anche perché sono toscano. Ma c’è una ragione alla base della mia decisione: quella del Monte dei Paschi è una storia di reati e indagini della magistratura. Quello che rende paradossale per certi versi, e sicuramente incredibile, la storia di Lehman è che non c’è nessun carcere, perché non ci può essere. La patologia per cui è saltata in aria la Lehman è sistemica.
Il suo romanzo è appunto anche una critica feroce a questo capitalismo. Dieci anni dopo cosa abbiamo imparato?
Dicevo che questa è la vicenda di un ordine che in quel momento aveva bisogno di un capro espiatorio per essere raddrizzato. Non è malaffare, è il grido d’allarme di un sistema al collasso. Qui sta il valore simbolico della storia. A distanza di dieci anni possiamo dire che Lehman è stato il muro di Berlino del capitalismo. Con Berlino è caduto il comunismo e per un verso con Lehman è caduto il capitalismo: Soros, dopo il crac, disse chiaramente ‘Questo sistema è finito’. È stata una cesura, un punto di non ritorno. Eppure dopo quel crac tanto fragoroso, una grandissima parte di coloro che rivestivano incarichi dirigenziali dentro Lehman Brothers, hanno trovato analogo impiego con analogo grado presso altri colossi dell’economia…
Dopo il crollo del Muro di Berlino, i partiti di sinistra nel mondo non sono scomparsi. Anzi, abbiamo avuto governi progressisti anche in nome di quelle idee.
Ma non era più la stessa sinistra. Non poteva più esserlo, se non a livello testimoniale o nominale. Il sistema cui si riferivano i partiti socialisti e comunisti fino agli anni Ottanta era finito per sempre. Nello stesso modo Lehman è stato uno iato, anche se naturalmente le banche esistono ancora.
Non è cambiato nulla?
Sulle nostre teste c’è un grande cartello di pericolo imminente: adesso lo sappiamo. La prima parte dei Lehman è la storia di un’impresa commerciale che diventa banca. Poi la banca va talmente bene che s’insuperbisce, cominciando a fare il passo più lungo della banca. Fino a che questi comportamenti portano il sistema a un default, la crisi del ’29. Una cosa epocale: suicidi, disastri, disoccupazione alle stelle. Il sistema in quel momento ha una battuta d’arresto. Lehman è tra le pochissime che si salva. Attenzione perché nei trenta, quarant’anni successivi il sistema è ben consapevole del trauma subito. Ma la macchina si rimette in moto e, di fatto, quel che accade nel 2008 è un’altra crisi del ’29. Oggi la situazione è analoga, solo con tempi molto più accelerati. In un mondo interconnesso certa roboante economia sta sostanzialmente facendo finta di nulla. Adesso constatiamo che le minacce nucleari, i missili reali, di un piccolo dittatore coreano riempiono i titoli dei giornali per un po’. Ma poi il dittatore dà la mano a Donald Trump e tutto finisce lì. I missili reali sono una forma di bullismo internazionale. Altro è quello che si compie con i dazi o le grandi speculazioni. Dal crac Lehman abbiamo assistito a un’economizzazione dei conflitti: la guerra oggi si fa con l’economia.
*Il Fatto Quotidiano, 2 settembre 2018