Una delle decisioni migliori prese dai leader europei negli ultimi anni, forse la migliore, è stata quella di nominare Mario Draghi alla presidenza della Bce. Era il giugno 2011 quando i capi di Stato e di governo della Ue ratificarono la nomina. Dal 1° novembre successivo, il banchiere centrale italiano prese posto alla guida dell’istituzione di Francoforte: per otto anni non rinnovabili. Lascerà l’incarico alla fine del prossimo ottobre. Buona parte del 2019, dunque, trascorrerà alla ricerca del sostituto: sarà la nomina più importante tra le molte che in Europa si dovranno decidere e sarà decisamente difficile. La riflessione dei leader europei, però, dovrebbe andare al di là della ricerca della persona giusta. Perché la performance non comune di Draghi in questi anni è anche segno dell’incompiutezza dell’architettura dell’Eurozona. La scelta del presidente della Federal Reserve americana è di enorme importanza, naturalmente: si tratta della guida della banca centrale più importante del mondo, quella che volente o nolente influisce sul dollaro. Chiunque venga nominato a Washington, però, va a guidare un’istituzione che è completa, cioè opera in un’area monetaria ottimale nella quale esiste un’unica politica economica, nella quale il movimento delle persone è consistente per cui ai cambiamenti dell’economia corrispondono spostamenti delle persone, nella quale i trasferimenti finanziari avvengono senza ostacoli.
La qualità del presidente della Fed rimane un fattore importantissimo:Paul Volcker fu il governatore della lotta all’inflazione; Alan Greenspan il grande banchiere-sfinge che fece l’errore di non sgonfiare la bolla della finanza dei subprime mortgage; Ben Bernanke colui che dovette gestire la Grande Crisi e lanciare il Quantitative Easing (QE); Janet Yellen colei che lentamente iniziò l’uscita dalla politica monetaria non convenzionale; e ora Jerome Powell è il presidente che sta gestendo il Quantitative Tightening (QT), cioè la cessione dei titoli comprati sul mercato durante il QE, e alza i tassi d’interesse. Negli Stati Uniti il presidente della Fed può fare errori — e quando li fa hanno conseguenze notevoli per tutto il mondo — ma dietro ha una Fed consolidata e un’area monetaria che funziona senza ostacoli.
Nell’Furozona non è così. Innanzitutto, le differenze tra le economie dei 19 Paesi che hanno adottato l’euro sono significative e non sempre convergono, anzi. Il che significa che una politica monetaria unica può essere ideale per qualcuno ma non ideale per qualcun altro. In più, c’è l’enormità della questione politica, cioè delle diverse idee nazionali di politica monetaria e del ruolo stesso della banca centrale: il presidente della Bce deve sapere trovare un bilanciamento tra le posizioni e spesso imporsi Inoltre, come si è visto negli anni scorsi, una crisi seria fa sorgere nei mercati il dubbio che l’Unione monetaria possa rompersi, proprio perché non si tratta di un’area ottimale. Anche dal punto di vista della gestione tecnica della politica monetaria le differenze tra i 19 Paesi emergono con regolarità. Infine, l’indipendenza dalla politica, che negli Stati Uniti è l’indipendenza della Fed dal presidente americano e dal Congresso, in Europa deve dispiegarsi su una serie di governi e di parlamenti, in alcuni casi parecchio pressanti. A tutto questo si aggiunge il fatto che una Unione bancaria completa ancora non c’è e che non esiste un mercato dei capitali unico, il che rende tutto meno stabile.
Vent’anni dopo il lancio dell’euro — l’anniversario è il 1° gennaio 2019— si può dire che la Banca centrale europea ha funzionato ma non era scontato che funzionasse. Soprattutto non è scontato che funzioni in futuro. Ciò che ha consentito di farle svolgere un ruolo positivo, probabilmente di salvare l’euro, è stato il fatto che al vertice c’era un presidente con una chiarezza di obiettivi e con una capacità tecnica e politica di gestire la banca non comuni. I sette anni trascorsi da Mario Draghi alla guida dell’istituzione raccontano che la Bce non va avanti in automatico, che le serve di una leadership di grande capacità. Parafrasando, beata quell’area monetaria che non ha bisogno di un grande banchiere centrale. Il dato di fatto è che l’Eurozona ne ha bisogno. Solitamente si dice che il punto più alto della presidenza Draghi alla Bce sia stato l’ormai famoso «whatever it takes» da lui pronunciato nel luglio 2012: con il quale garantiva che l’euro non si sarebbe spezzato, qualsiasi cosa ciò avesse dovuto significare in termini di misure da prendere. «E credetemi, sarà sufficiente», aggiunse. Ciò calmò i mercati e la necessità stessa che il presidente della banca centrale avesse dovuto fare una dichiarazione pubblica in tal senso è significativo del fatto che non era scontato che la Bce fosse pronta a fare qualsiasi cosa per preservare la moneta unica. Per quanto il discorso del luglio 2012 sia stato importante, però, l’azione più rilevante di Draghi è stata probabilmente meno estemporanea di un semplice discorso a investitori nervosi.
È il Quantitative Easing stesso, l’acquisto di titoli sui mercati l’operazione più difficile e più di successo che ha condotto in porto. Le opposizioni politiche al QE erano forti, in Germania e in alcuni Paesi del Nord. Entrare in un territorio di politica monetaria mai frequentato — anche se già scelto dalla Fed — era un passo difficile da fare accettare nel Vecchio Continente. Draghi lo ha spiegato, in particolare ad Angela Merkel aiutato anche dalla drammaticità della situazione, e in qualche caso l’ha imposto. Il risultato è stato che l’Eurozona ha evitato una nuova recessione e non è entrata in deflazione. La comunicazione del presidente della Bce ha anche consentito che la fine del programma di acquisti di titoli, terminato con il 2018, non sia stato accompagnato da forti variazioni sui mercati, a differenza di quanto accadde negli Stati Uniti. Nel novembre ton, quando Draghi entrò nella sede della Bce per la prima volta da presidente, pochi pensavano che qualcosa del genere potesse essere portato a termine.
Nei prossimi mesi, dunque, i leader europei dovranno impegnarsi a trovare una persona di qualità elevatissime, sia sul piano tecnico che politico, da nominare alla guida della Bce. Già questa sarà un’impresa davvero ardua. Draghi lascia in eredità quella che egli chiama «cassetta degli attrezzi» della quale il QE fa pienamente parte, non solo perché è già stato usato ma anche perché la Corte europea di giustizia ha stabilito a inizio dicembre che è legale e interno al mandato della Bce. Ciò significa che il futuro presidente della banca centrale avrà a disposizione lo strumento se ce ne dovesse essere bisogno, se arrivasse una recessione quando i tassi d’interesse sono ancora molto bassi e quindi hanno poco spazio per scendere. Servirà però qualcuno che, nel caso, non avesse remore a utilizzarlo di nuovo. Al di là delle emergenze, il futuro capo della Bce avrà il compito di riportare la politica monetaria su un sentiero di normalità, senza però provocare scosse. La scelta sarà dunque importante . E proprio per questo difficile. Chiunque scelgano, però, i governi europei non possono illudersi che ci sia sempre un Mario Draghi a risolvere i problemi. Probabilmente non ci sarà. Dovrebbero porsi l’obiettivo, al momento mastodontico, di creare le condizioni affinché la Bce funzioni quasi indipendentemente da chi siede al suo vertice. Il «whatever it takes» probabilmente funziona una volta sola. Questi anni Bce dimostrano che la non va avanti in automatico, le serve un leader di grande capacita