Non sono molte le aziende in Italia (meno che mai nel mondo) che possono vantare nella propria aneddotica storica, l’amicizia con Lorenzo de’ Medici. O dei versi dedicati da Francesco Redi. I Marchesi Antinori possono, grazie alla loro storia che affonda le sue radici nel dodicesimo secolo.
Fu Lorenzo de’ Medici a consigliare a Niccolò Antinori nel 1506 l’acquisto del palazzo vicino all’Arno, ora Palazzo Antinori, eponimo della piazza antistante, un centinaio di anni dopo che Giovanni di Piero Antinori decise di unirsi all’Arte di Vinattieri, segnando il «destino» della famiglia Antinori. Ventisei generazioni dopo, prosegue la tradizione vitivinicola e l’azienda Marchesi Antinori è ancora a gestione familiare.
«E per fare in modo che la nostra tradizione non vada persa per le generazioni future, per evitare anche una frammentazione della nostra storia, nel 2012 abbiamo creato un Trust che durerà 90 anni», spiega Albiera Antinori, oggi presidente dell’azienda fiorentina, dopo il passaggio di consegne dalle mani del padre Piero. Accanto a lei le due sorelle, Allegra e Alessia entrambe vice presidenti dell’azienda. Essendo la produzione vinicola un business capital intensive, la crescita non può essere né immediata né esplosiva: «Registriamo comunque un tasso di crescita costante del 45%», conferma Antinori. Il 2017 si è chiuso con un fatturato di 181,7 milioni di euro, contro i 178,5 del 2016 e i 138 del 2011.
Il tutto ottenuto grazie alla qualità. «Abbiamo puntato sempre sul miglioramento del prodotto, cercando di posizionarci sempre nella fascia alta — specifica la Albiera Antinori — , più che incrementare il numero di bottiglie (circa 23 milioni all’anno ndr). Nel corso degli anni abbiamo ampliato gli ettari di vigna di nostra proprietà e costruito 12 nuove cantine. A livello di investimento, per rifacimenti e manutenzione impieghiamo ogni anno circa 1520 milioni».
Proprio la peculiarità del business (investimenti che rendono solo sul lungo, lunghissimo termine) «impedisce» di aprire il capitale al mercato. Ci aveva provato la multi nazionale della birra Whitbread, che nel 1984 aveva acquisito una quota di minoranza, ma otto anni dopo la famiglia rientrò in possesso del 100% del capitale. Un’eventuale quotazione dunque è esclusa, per il medesimo motivo. Per crescere ulteriormente bisogna quindi consolidare la presenza nei mercati esteri, che rappresentano circa il 65% del business, dagli Usa alla Russia. «Siamo presenti in circa 160 Paesi. L’obiettivo è ampliarci sul mercato asiatico ora al 6%, ma che ha un potenziale enorme di sviluppo. Cina in particolare, dove i vini italiani sono ancora poco conosciuti. In questo senso possono aiutare le vendite online. Noi ancora non abbiamo una vendita diretta. Siamo però ben posizionati sia sui canali tradizionali con una struttura solida di importatori e distributori».
L’Economia 15 marzo 2019