Ci sono due domande sulla figura del manager che spesso aleggiano: il manager è un imprenditore senza coraggio? O il manager è un burocrate con energia? La risposta non esiste, oppure dipende. Ogni manager può interpretare il ruolo a suo modo. Ma in questa crisi italiana la figura del manager ha avuto un ruolo. E non certo positivo. Nelle aziende vi sono molti manager all’altezza della situazione. All’estero, in particolar modo nel mondo del fashion, vi sono molti italiani che si stanno facendo apprezzare (Antonio Belloni Direttore Generale di LVMH, Pietro Beccari AD di DIOR, Marco Gobetti AD di Burberry, Alessandro Bogliolo Ad di Tiffany, Fabrizio Freda AD di Estée Lauder…). Ma se un manager di rango come Giuseppe Morici si è scomodato a scrivere “Fare i manager rimanendo brave persone”, vuol dire che c’è qualcosa che non ha funzionato. Non è un titolo a caso. Non è un titolo buttato lì. Quel “rimanendo brave persone” segnala tutta la difficoltà nell’esserlo. E’ l’affermazione che ci dice come non sia per niente facile esserlo ma nonostante tutto è possibile. Si può – anche – essere utili non solo al proprio conto in banca. Morici con questo suo libro offre continuità di pensiero al suo precedente testo, “Fare marketing rimanendo brave persone”. La linea che li congiunge sta nel combinare, passione, competenze ed etica in quello che si fa. Etica: parola che andrebbe evitata o meglio, che non dovrebbe essere presente nel vocabolario perché insita in tutti gli altri vocaboli. Il definirla, darne un perimetro, significa che non sempre è presente nelle azioni che ognuno di noi compie. In realtà il libro di Morici si muove tra la ricerca di una rilettura di quello che lui ha fatto e una critica profonda per come il sistema delle aziende si trova a vivere. La sua è una critica non polemica, mai banale. Non rincorre ai titoloni da giornale. Compie dei ragionamenti per dimostrarci che spesso ci facciamo prendere da meri abbagli. Prendiamo il tema del profitto. Fin dal primo giorno in cui si entra in un’azienda si viene allertati che il profitto è il fine ultimo di un’impresa. Morici, invece, si pone la domanda se realmente questo sia l’obiettivo per cui sono nate:
“Vediamo innanzitutto i numeri. Se un’azienda ha un fatturato di cento milioni di euro e costi totali per novanta milioni, ha un profitto pari a dieci e quindi un margine di profitto del 10 per cento. A partire da questo profitto lordo, deve poi accantonare le riserve e su ciò che serve deve pagare le tasse. Diciamo che alla fine può generare un utile netto di tre milioni di euro. Non è quello che percepisce l’azionista, il proprietario. Quello che percepisce l’azionista, infatti, è il dividendo, non l’utile, perché l’azienda potrebbe decidere di non distribuire tutti gli utili o di non distribuirne affatto, nonostante abbia fatto profitto, perché per esempio vuole mettere fieno in cascina in attesa di tempi peggiori. Quindi immaginiamo che alla fine dei conti il dividendo che l’azionista della nostra azienda riceve a fine anno sia pari a due milioni. Siamo arrivati al 2 per cento del fatturato. Cento di fatturato, dieci di profitto, tre di utile e due di dividendo. Su cui, peraltro l’azionista, in qualità di persona fisica, dovrà pagare le tasse sul reddito (…). Risulta chiaro, anche matematicamente, quanto il dividendo non sia l’elemento principale della vita di un’impresa e certamente non di quella dell’imprenditore.”
L’impresa è sociale per definizione
In realtà sono gli stakeholders che beneficiano dell’attività dell’azienda: dai fornitori ai collaboratori. L’impresa è quindi una comunità di intenti, per definizione. Uno spazio organizzato che ha ampie e diversificate ramificazioni fuori dal suo perimetro. Il profitto diventa uno strumento perché misura la capacità di proiettare l’azienda verso il futuro. E’ la certificazione della capacità di generare investimenti di cui l’azienda stessa ne beneficerà. Da questo punto di vista la politica della distribuzione dei dividendi diventa un indicatore molto importante per giudicare la prospettiva di una impresa. Non è un caso che molte delle aziende che negli ultimi anni sono riuscite ad aumentare il fatturato e a crescere in termini di EBITDA, come testimoniato dalla ricerca dei 500 champions condotta da Filiberto Zovico, sia presente una distribuzione del l’utile dove principalmente si guarda al bene dell’azienda e, in secondo luogo, al portafoglio del proprietario. Su questa concezione di azienda, quale soggetto sociale con una responsabilità economica e non come soggetto economico con una responsabilità sociale, i manager non sempre sono stati, in questo Paese, dei paladini. Spesso abbiamo visto o letto di atteggiamenti meramente usurpatori: manager che passano da un’azienda ad un’altra con il solo scopo di massimizzare il profitto e, soprattutto, di gonfiare la loro retribuzione variabile collegata a questi risultati.
Oltre la gestione c’è il futuro
L’altro grande errore che il manager rischia di commettere, è quello di focalizzarsi sulla mera gestione dell’azienda. Gestire – c’è lo ricorda Morici – vuol dire condurre i processi. Questo comporta una visione operativa, molto più concentrata sull’efficienza dell’oggi che su quella di domani. Invece il manager dovrebbe avere uno sguardo ampio aiutando l’imprenditore a cogliere tutte le sfumature che vanno oltre al prodotto. L’imprenditore non ha il tempo di guardare oltre la propria idea, non ne percepisce tutti i problemi. Il manager deve avere la capacità di mettersi in relazione con il prodotto, aiutando a realizzarlo, ma senza ucciderlo a causa di punto di vista avaro e freddo. Nella realtà, quante volte la pratica manageriale è rivolta più alla complicazione che alla semplificazione? Quante volte è rivolta alla riduzione più che alla ridondanza senza che questa ultima sia uno spreco? Pensiamo alla logica dell’outsourcing che ha reso le aziende prive di molti pezzi del loro processo che, solo in un momento successivo, si scoprono essenziali per garantire un prodotto all’altezza dell’immagine che ha, oltre che per avere dei margini maggiori. Di aziende manifatturiere senza fabbriche il mondo è pieno. Di imprese che hanno la logistica appaltata, il mondo è saturo. Proprio nel momento in cui il servizio, la capacità di arrivare in tempi più brevi possibili al cliente, diventa cruciale nella vita del prodotto, le aziende hanno deciso di affidare ad un terzo questo passaggio. Passi se questo è fatto da un operatore serio e professionale, assurdo se invece la logistica viene gestita da false cooperative gestite da capi banda che sfruttano le persone come fossero degli schiavi. Non è un caso che alcune aziende su questo fronte stiano tornando indietro, più o meno costrette, e che realtà come Amazon – per il momento in alcune aree degli Stati Uniti – abbiano già intrapreso la via della gestione completa della filiera del suo servizio. La pratica manageriale richiede tempo, il giusto tempo. La fretta che si è annidata e ha preso possesso negli uffici più o meno ovattati dei dirigenti, rischia di essere cattiva consigliera. Il confine tra rapidità e superficialità diventa talmente labile da diventare una prassi scontata. Ma soprattutto rischia di creare una cultura che non sa cogliere i mutamenti fuori dalla finestra del proprio ufficio. Il manager che è non dedito a calpestare con i suoi passi le fabbriche, che non va nei differenti uffici per incontrare le persone, che non perde tempo a capire la cultura del paese che lo accoglie, è una figura che prima a dopo potrà essere sostituita da un algoritmo. Talvolta serve muoversi più in treno, o in macchina, che in aereo. L’aereo ti preleva da un luogo e ti porta in un altro posto. Salta il paesaggio che c’è in mezzo. Il treno ti fa transitare per le diverse realtà. Segna il passaggio da un territorio ad un altro.
Gli headhunter capiranno?
“Fare i manager rimanendo brave persone” è un libro pieno di lezioni utili che oggi, nel praticarle, significa avere delle idee controcorrenti e non inseguire costantemente il mainstream. Un capitolo dovrebbe essere letto da tutti i principali protagonisti che calcano queste scene, anche da quegli headhunter che spesso rifilano in ruoli chiave soggetti più perché appartengono alla loro cerchia, che per il bene del loro committente. E’ un capitolo dal titolo evocativo e che contiene alcuni buoni consigli: “Imprenditori, manager e la pazienza di sopportarsi a vicenda”. Tra imprenditore e manager non deve mai scattare l’amore, perché quello rischia di sfumare brevemente. Deve, invece, crearsi un sodalizio:
“Un rapporto profondo, che va oltre le vicende del momento, oltre gli obbiettivi di oggi è di domani, oltre gli accordi e i disaccordi, le divergenze, perché scava a fondo nella dimensione umana delle persone e le salda in un patto emotivo, quasi familiare. Per questo motivo, il più importante dovere di un bravo imprenditore è quello di scegliere le persone giuste.”
Convivere sulla stessa barca non è facile, soprattutto se il mare spesso è in tempesta. L’arte della convivenza si affina con la comprensione di punti di vista alternativi, il rispetto dei differenti approcci, l’attesa per la diversa maturazione del pensiero. Insomma, come ci dice l’autore, serve tanta pazienza per sopportarsi a vicenda.
Titolo: “Fare i manager rimanendo brave persone”
Autore: Giuseppe Morici
Editore: Feltrinelli