Un mese a spasso con Alessandro Di Battista, sulle barricate con i gilet gialli, la posa chavista sul Venezuela, infine il flirt commerciale con la Cina. In un pugno di settimane Di Maio ha sgualcito l’immagine che a fatica si era costruito dalle parti di Washington, quando si presentò agli americani, nel novembre 2017, come il possibile futuro candidato premier. Come avvenne allora, Di Maio atterrerà negli Usa dal 27 al 29 marzo, a New York e poi a Washington, con il preciso proposito di attenuare la diffidenza dell’amministrazione americana verso il M5S. Il grillino lavora a un rafforzamento dei rapporti bilaterali, a sostegno degli Usa «nell’ambito dei negoziati commerciali con l’Ue» e sul fronte energetico, «per la diversificazione delle rotte e dei fornitori». Traduciamo: meno dipendenza dal gas russo, come prova il totale cedimento sul gasdotto Tap caldeggiato dalla Casa Bianca. Il timore del capo politico grillino è che dopo la visita di Giancarlo Giorgetti negli Stati Uniti, la Lega voglia scaricare addosso ai 5 Stelle tutta la responsabilità delle insofferenze americane. Anche perché l’adesione di Roma al progetto «Belt and Road» (Bri) con Pechino arriva in un momento di tensioni riguardo all’affidamento della rete 5G alla cinese Huawei. Altra storia, altro capitolo, ma stesso romanzo sulla guerra dei dazi tra Cina e Usa per il dominio globale.
Il governo è di nuovo diviso. Matteo Salvini dice: «A me basta che venga tutelato l’interesse nazionale soprattutto quando si parla di telecomunicazioni e dati sensibili». Il punto, però, è che gli avevano chiesto dell’accordo italo-cinese, non di Huawei. E così la prima immediata preoccupazione di Di Maio diventa quella di separare i dossier. Il ministero dello Sviluppo economico è costretto a far sapere che «Il Memorandum of Understanding tra Italia e Cina non comprende alcun accordo sul 5G». Ma non basta. Perché nel frattempo Salvini ha evocato la golden share, e dal Carroccio dicono di essere pronti a una norma a tutela delle aziende italiane.
Dal M5S passano al contrattacco: «Sorprende la spaccatura della Lega. Salvini parla di colonizzazione, mentre il sottosegretario Michele Geraci (in quota Lega, ndr) sostiene fortemente l’intesa. Questa frattura interna fa male al Made in Italy e alle nostre imprese che ci chiedono uno sforzo per portare l’Italia nel mercato cinese e non subirlo». È il punto su cui insiste Giuseppe Conte, dopo aver incassato il sostegno del Colle. «Per l’Italia e per l’Ue è l’occasione per introdurre i nostri standard di sostenibilità finanziaria, economica e ambientale». Il presidente del Consiglio, che oggi riferirà su Huawei al Copasir, la commissione di controllo sui servizi segreti, vuole rassicurare Donald Trump e, assieme, placare i timori leghisti: l’iniziativa del Bri, sostiene, resta «su un piano economico-commerciale» e non compromette la collocazione euro-atlantica dell’Italia.
Di Maio lo ribadirà a fine mese: «La Nato resta la nostra casa naturale». Il grillino vedrà investitori americani e in agenda sono già previsti colloqui con giganti come Amazon, Google e Facebook. Ma difenderà l’accordo con Pechino, «Un mercato da enormi profitti. Sarebbe da ciechi non considerare che c’è una parte di mondo che cresce a livelli esponenziali. Chiederemo regole chiare e diremo alla Cina che il nostro Made in Italy non si tocca». Prima però il vicepremier dovrà spiegare come e quando sarà pagata alla Lockheed la tranche mancante sugli F35: «Onoreremo tutto il fatturato ereditato dallo scorso governo. Il programma però sarà ridiscusso, come abbiamo sempre detto». Il M5S, è la posizione del leader, «resta critico ma l’Italia ha anche bisogno di una difesa aerea per il mantenimento della sicurezza interna».