Il plebiscito era annunciato ed è arrivato puntualmente: gli iscritti di Rousseau, la piattaforma che certifica i militanti del Movimento 5 Stelle, hanno «confermato» Luigi Di Maio alla guida del Movimento, nonostante la sconfitta alle Europee, con un 80 per cento pieno. Un esito scontato, che arriva dopo un’assemblea gonfia di malumori, che però alla fine ha sancito il via libera implicito della maggioranza dei parlamentari a Di Maio. Hanno votato in 56.127 (44.849 sì e 11.278 no), poco più dei militanti che salvarono Salvini sulla Diciotti (52.417). Quanti fossero ieri gli aventi diritto al voto è uno dei tanti misteri che il Movimento non svela. Rousseau resta un oggetto sconosciuto, una piattaforma informatica in mano a una società privata, presieduta da Davide Casaleggio, e finanziata dai versamenti dei parlamentari. Nessuna certificazione esterna dei dati, e il risultato spiattellato nudo e crudo sul blog delle Stelle. Con una domanda suggestiva, che già attendeva la risposta, come si evinceva dai post del Movimento che invitavano a votare «per confermare Luigi Di Maio».
Di Maio resta dunque alla guida. Come spesso succede nelle assemblee dei 5 Stelle, anche quella di mercoledì sera prometteva più fiamme di quante se ne siano levate davvero. Una cinquantina di interventi, e pochissimi quelli davvero critici. A mettere in discussione Di Maio, praticamente nessuno, tranne Elena Fattori. Qualche critica sull’organizzazione, sulla mancanza di confronto e poco altro. I veri due interventi di peso, sono stati quelli di Emilio Carelli e di Roberto Fico, mentre Alessandro Di Battista è stato accolto con grande freddezza. Il giornalista ha ribadito con forza quel che dice da qualche giorno: «Non si può far finta di niente se qualche ministro o sottosegretario del governo non funziona. Valutiamo bene e decidiamo come intervenire. Ricordate che anche Renzi fece finta di niente e sappiamo com’è finita». Il suo intervento è stato accolto con un grande applauso della platea, nell’imbarazzo del ministro Danilo Toninelli, uno dei ministri sotto accusa.
Fico ha parlato tardi, ma il suo, insieme a quello di Alessandro Di Battista,era l’intervento più atteso, ribadito ieri con un lungo post. Nel quale annuncia il suo non voto su Rousseau. Perché, dice, «sono sempre stato contrario alla politica che si identifica in una sola persona». Che poi è quello che è successo nel Movimento. Dunque, un’accusa chiara a Di Maio e alla sua gestione personalistica. Fico, secondo quanto riportato, nell’assemblea di mercoledì aveva detto: «Se devo dirvi oggi che cosa siamo, se devo fare una radiografia di questo Movimento, la mia risposta è che non lo so. Non lo so più chi siamo». Nel post ammorbidisce il tono, anche se il senso rimane, ed è quello di trovare «un’identità forte». Fico contesta «una comunicazione malata basata sui sondaggi» e chiede di anteporre «l’etica» e di «raccontare sempre la verità agli italiani». Spiega che il vertice non è sostenuto da «percorsi di confronto» e da «un sistema di pesi e contrappesi». E poi parla apertamente della vera trasformazione in atto, mai palesata in questi termini: «Vogliamo restare ancorati a una bellissima idea di movimento o vogliamo diventare un partito a tutti gli effetti?». Bella domanda, visto che il Movimento è nato proprio per contrastare la «casta» dei partiti, ma poi ha subito pesanti sconfitte sul terreno, proprio a causa del mancato radicamento territoriale e organizzativo.
Se apparentemente Di Maio ha ripreso le redini del Movimento e poco o nulla sembra cambiare, in realtà il fuoco continuerà a covare sotto la cenere. Il «pensatoio» dei cinque saggi ipotizzato da Di Maio (oltra a lui Casaleggio, Grillo, Di Battista e Fico) è già stato messo in discussione. Fico potrebbe sfilarsi e potrebbero entrare altri esponenti storici, come la Taverna. La neo costituente, ha spiegato Di Maio, si scioglierà un attimo dopo aver creato le nuove regole. Ma, ancora una volta, rischia di dare l’impressione che il Movimento sia un’oligarchia in mano ai pochi noti.