Quando i commessi della Camera aprono le pesanti porte di legno dell’auletta di via di Campo Marzio per farlo entrare, alle nove e quaranta di sera, Luigi Di Maio ha il volto di chi ha combattuto una battaglia estenuante. E non sa ancora se ha vinto oppure perso. Non sa se il salvataggio di Matteo Salvini attraverso il voto degli iscritti a Rousseau sarà ricordato, per i 5 stelle, come l’inizio del tracollo. O se da qui, salvando il governo e il destino della maggioranza giallo-verde, la forza politica che si ritrova a guidare potrà ripartire e diventare qualcos’altro. Un partito che si struttura sul territorio a costo di infrangere i dogmi delle origini. Un Movimento in grado di recuperare gli elettori delusi, soprattutto al Sud, chiedendo al leader leghista un pegno da pagare per una decisione che ha spaccato i cinquestelle mettendoli l’uno contro l’altro: congelare il progetto di autonomia per Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna fino a dopo le europee. E cambiarlo su quattro punti fondamentali: scuola, trasporti, ambiente, economia. Su questo, il vicepremier M5S ha chiesto un faccia a faccia con Salvini previsto per oggi. Intanto, però, ha un’assemblea da portare dalla sua parte. E quando prende la parola, la voce è tesa. Il piglio nervoso.
Anche se per non lasciarlo in difficoltà è presente tutto lo stato maggiore: dai ministri all’ufficio di comunicazione. E se ha dalla sua nuovi pretoriani come la vicepresidente del Senato Paola Taverna, che tuona contro i dissidenti: «Quelli che si sentono “il Movimento” e che ora diranno che non accettano la votazione se ne devono andare», dice riferita alle senatrici Paola Nugnes ed Elena Fattori, che hanno scelto di non esserci. Nonostante minacce e promesse, però, come quella di una organizzazione nazionale a partire dai temi (che veda dentro dagli europarlamentari ad attivisti non eletti) e di delegati regionali per parlare con le categorie produttive nei territori, c’è gran parte del gruppo parlamentare in subbuglio: per il 22 per cento annunciato dai sondaggi (l’ultimo, Swg per il tg La 7). Per il cattivo funzionamento e l’inesistente trasparenza della piattaforma Rousseau («Quello è il vero problema», conferma chi parla con i vertici). Per la scelta di concedere a un ministro una protezione maggiore, davanti ai giudici, di quella che ha un normale cittadino. A esprimersi contro sono stati esponenti di governo come Carlo Sibilia, Vito Crimi, Andrea Cioffi; il presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra; i senatori ortodossi Alberto Airola e Laura Bottici; il presidente della Camera Roberto Fico. Per ultimi, i sindaci Virginia Raggi, Chiara Appendino e Filippo Nogarin, che al Fatto hanno ricordato come loro, accusati di reati compiuti nell’esercizio delle loro funzioni, abbiano sempre affrontato i processi. È questo, più che la battuta di Beppe Grillo sul Comma 22 e sulla sindrome di Procuste, ad aver mandato su tutte le furie il capo politico. Il fondatore è stato chiamato e ha subito offerto una nota in cui dice, ancora una volta, «Scherzavo». Ma Di Maio ce l’ha soprattutto con la sindaca di Roma, tanto da costringerla a una dichiarazione riparatrice. E da far trapelare possibili ritorsioni: «Altro che stop al limite dei due mandati per sindaci e consiglieri comunali — spiega uno dei fedelissimi — Nogarin si vuole far bello per le europee, Appendino piange per le Olimpiadi mancate, ma non hanno visto niente». Questo il clima. Convincere tutti che bisognerà attenersi al voto della rete, come intimato dal capo, non sarà facile. Come non sarà facile sciogliere un altro paradosso: cos’accadrà se il tribunale dei ministri chiederà l’autorizzazione a procedere anche per Conte, Di Maio e Toninelli? A quel punto si dovrebbe votare uno scudo anche per loro. Bruciando via blog l’ennesimo tabù.