«Vento e piova / Che el Signor la mandava / Dai Tre Porti / Da Lio, da Malamocco / L’acqua vegniva drento de galopo / La impeniva i canali, / La bateva in tei pali…». A vedere montare l’acqua alta, l’altra notte, i veneziani hanno rivissuto i versi disperati del poeta ottocentesco Francesco Dall’Ongaro.
Le sirene del primo allarme sono arrivate alle sei del pomeriggio: 145 centimetri. Le seconde verso sera: 160. Le terze alle 22.50: «La laguna subisce gli effetti di non previste raffiche di vento da 100 km orari. Il livello potrebbe raggiungere i 190 centimetri alle 23.30». Arriverà in realtà a 187. Solo sette centimetri in meno della disastrosa «aqua granda» del 1966.
Anche i più previdenti, come Gianpietro Zucchetta che anni fa scrisse per Marsilio «Storia dell’acqua alta a Venezia», un libro pieno di cronache antiche e illustrazioni e rapporti scientifici, nulla hanno potuto davanti alla violenza della marea. Sul portone di casa aveva montato una robusta paratoia che arrivava a un metro e 75 centimetri. Più di così! Nella notte le acque se la sono portata via e la stanza d’ingresso è finita sotto. Le foto pubblicate da Corriere.it dicono tutto. Gondole strappate all’ormeggio e lasciate dalla corrente in mezzo alle calli e ai campielli.
E poi vaporetti sollevati come barchette e sbattuti di sbieco sulle rive del Canal Grande. Alberghi di lusso come il Gritti coi divani e i tavolini del Settecento galleggianti tra le stanze dorate col ritratto di un doge severo appeso alla parete. Negozi di oreficeria e suppellettili e vestiti travolti dalla marea, con borse e borsette che affogano in un liquido scuro. Maschere da carnevale inzuppate e sformate. Negozianti con le mani nei capelli. La cripta di San Marco invasa dalle onde e così la Basilica e la Piazza, coi turisti che si muovono silenziosi trascinando gli stivaloni. Eccetto il solito bulletto, che sguazza ridendo nell’acqua per la foto ricordo. Del tutto ignaro della tragedia che si va compiendo. E sintetizzata dal procuratore di San Marco così: «Siamo stati a un soffio dall’Apocalisse».
Solo la piena del ’66 fu così devastante. Al punto di sollevare un’indignazione mondiale contro il continuo aumentare dei giorni di acqua alta. E di spingere Venezia, il Veneto, l’Italia, a cercare una soluzione. «Non c’è tempo da perdere!», dicevano tutti. «Non c’è tempo da perdere!». Poi le acque si ritirarono, il fango fu asciugato, le botteghe vennero riaperte, i tavolini dei bar tornarono al loro posto e coi tavolini tornò al suo posto anche il sole. I lavori «urgentissimi» si fecero «urgenti», poi «necessari in tempi brevi», poi diluiti nei dibattiti: «Bisogna pensarci bene». I danni gravissimi al patrimonio umano, artistico, culturale non servirono neppure a rallentare la costruzione in corso del grande Canale dei Petroli. Che c’entrava, quel canyon scavato in una laguna profonda in media 110 centimetri, con l’acqua alta?
Tre anni dopo, nel 1969, Indro Montanelli si sfogava contro certe iniziative «prese e tirate avanti senza che si fossero studiati gli effetti che potevano sortire sul delicato equilibrio acqua-aria-terra su cui Venezia si regge, e che ora dà segni di catastrofico sconvolgimento». E ammoniva che a Venezia «non si può procedere al buio. Uno sbaglio, che a Milano può essere corretto e rimediato, per Venezia può significare la morte. Ci si astenga quindi da imprese, di cui prima non si siano studiate a puntino le conseguenze».
Ci pensarono per quasi vent’anni, dopo l’alluvione, prima di decidere. Poi scesero di aggiornare l’idea «molto grandiosa» che un certo Augustino Martinello aveva proposto al Doge nel 1672 e cioè di fare un «muro a archi» alle bocche di porto con «delle porte da alzare e bassare per regolare le acque in caso di bisogno». Già nel 1982, come prova un’ Ansa , c’era chi era perplesso. Ma nell’85 ad Amburgo il progetto fu lanciato con turbo-ottimismo: «La marea sarà prevedibile con un anticipo minimo di cinque ore e le paratoie, suddivise in “porte’’ da cinque metri ciascuna, saranno innalzabili in meno di un’ ora e capaci sia di resistere a mareggiate molto forti…». Nell’86 Bettino Craxi diede il via libera definitivo: «Le opere per la difesa di Venezia verranno ultimate entro il 1995». Due anni dopo, un pimpante Gianni De Michelis presentava il prototipo di una delle paratoie. Gongolò l’allora doge socialista: «Per Venezia è un giorno storico. Per la prima volta si passa dai progetti, dalle intenzioni, dai dibattiti e dalle chiacchiere a qualcosa di concreto. Se tutto andrà bene, dopo questi mesi di sperimentazione, potremo finalmente cominciare il conto alla rovescia per la sistemazione di queste paratoie che proteggeranno la laguna dall’acqua alta». Ciò detto, battezzò quella che considerava una «sua» creatura: «Chiamiamolo Mosè». Poi Mose.
Appena nato, si legge sul Corriere di quel giorno, segnava già un record: «È il prototipo forse più costoso mai costruito al mondo. Una “brutta copia” da venti miliardi di lire. È un colosso alto 20 metri, lungo 32, largo 25. Pesa 1.100 tonnellate e vivrà circa otto mesi, il tempo di collaudare il funzionamento della “paratoia”, quell’enorme cassone piatto e internamente vuoto, lungo 17 metri, largo 20 e spesso quasi 4, ancorata agli angoli da quattro gru».
Ma i tempi? De Michelis: la scadenza «resta quella del 1995». Certo, precisava, «potrebbe esserci un piccolo slittamento, visto che siamo partiti con tanto ritardo. Ma ormai il processo è avviato». Sono passati, dallo spot pubblicitario di Amburgo, 34 anni. Quasi quanti quelli trascorsi dal Mosé biblico e dal suo popolo nell’interminabile traversata del deserto. E qual è la situazione? Prendiamo dall’ Ansa l’ultima promessa, il 12 settembre scorso: « È fissata al 31 dicembre 2021 la consegna definitiva del sistema Mose, a protezione della Laguna di Venezia dalle acque alte. La data è contenuta nel Bilancio 2018 del Consorzio Venezia Nuova, il concessionario per la costruzione del Mose. Il completamento degli impianti definitivi del sistema è previsto per il 30 giugno 2020, con l’avvio dell’ultima fase di gestione sperimentale».
Rileggiamo: «Fase sperimentale». Tre decenni e passa di prove tecniche. Polemiche. Sprechi. Mazzette. Rinvii. Inchieste giudiziarie. Manette. Dimissioni. Commissari. E buonuscite astronomiche come quei 7 milioni di euro (duecentotrentatremila per ogni anno di lavoro: lo stipendio annuale del Presidente della Repubblica!) dati come liquidazione all’ingegner Giovanni Mazzacurati, il deus ex machina del Consorzio che se l’era già filata a vivere in California, dove poi sarebbe morto, prima ancora di sapere come sarebbe finito il processo che avrebbe potuto condannarlo a risarcimenti milionari…
Otto miliardi di euro, contando i soldi per le opere di contorno, è costato finora il Mose: quasi il triplo dei due miliardi e 933 milioni (euro d’oggi) dell’Autostrada del Sole. Prospettive? Un’ottantina di milioni l’anno per la manutenzione delle cerniere sottomarine. Se andrà bene. Notizia d’agenzia del 31 ottobre: «Non c’è pace per il Mose, la grande opera che dovrebbe salvaguardare la città e la laguna dalle alte maree. (…) Il Consorzio Venezia Nuova ha reso noto oggi che è stato rinviato a un’altra data il sollevamento completo della barriera posata alla bocca di porto di Malamocco». Colpa della scoperta di «vibrazioni in alcuni tratti di tubazioni delle linee di scarico».
Vale la pena di insistere? Questo è il nodo. «La domanda che va posta è se una scelta tecnologica fatta quarant’anni fa sia tuttora idonea, soprattutto alla luce dell’analisi costi benefici», scrivono in Corruzione a norma di legge Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri, «Si dirà che oggi è troppo tardi, ma è una domanda che, in quarant’anni, mai è stato consentito porre, sempre con la scusa che “ormai i lavori sono quasi finiti”». Manca poco… Manca poco…
E intanto la città che fu serenissima è andata di nuovo sotto. Con la paura che arrivino altri «effetti di non previste raffiche di vento»…