Una pentola a pressione, con il fuoco vivo sotto. Il Movimento 5 Stelle rischia di scoppiare, con l’improvvisa ricostituzione di una fitta trama di gruppuscoli interni, un intreccio incandescente di recriminazioni di corrente, divergenze politiche e asti personali. Obiettivo, la leadership di Luigi Di Maio. Che all’assemblea di stasera rischia il processo assieme ai suoi «pretoriani».
L’offensiva è particolarmente virulenta al Senato, dove due dei senatori più ascoltati da Di Maio danno ampi segnali di disagio. Primo Di Nicola si dimette da vicecapogruppo con questa motivazione: «Mettere a disposizione gli incarichi è l’unico modo per favorire una discussione democratica». Il tutto al plurale: il riferimento a Di Maio pare plastico. A seguire ecco Paragone, molto vicino a Di Battista: «Quattro incarichi sono troppi, serve un leader h24». Segnale che il Senato è pronto a chiedere il conto.
Una reazione così violenta sorprende lo stato maggiore. La riunione al Mise di lunedì ha fatto infuriare tutti: «Ma come, noi chiediamo condivisione e lui riunisce i suoi fedelissimi di sempre?». In un’adunata (quasi sediziosa) alla Camera, sono in molti a ribellarsi. Ci sono Gilda Sportiello e Luigi Gallo, vicini a Fico. E c’è Riccardo Ricciardi: «Se perdi 4-0 è evidente che c’è qualcosa che non va. Il voto degli elettori va rispettato».
Il «disastro apocalittico» (per dirla con Marco Travaglio) o «la scoppola» (per dirla con Alessandro Di Battista) non possono passare sotto silenzio. Non è bastato a Di Maio provare a spegnere l’incendio con le chiamate a Grillo, Casaleggio, Di Battista e Fico. Le correnti sono anche altrove. Bisogna guardare agli scontenti della vecchia guardia. Come Carla Ruocco, inviperita per il caso Minenna, per il quale ha reclamato invano la Consob. La deputata fa riferimento «all’esperienza di Roma» e attacca: «Voglio bene a Di Maio, ma c’è una responsabilità politica». E ancora: «Il governo non deve andare avanti a tutti i costi». La tentazione di staccare la spina aleggia ovunque, anche se è minoranza. Al fianco della Ruocco si schierano Nicola Morra (che chiede un direttorio, «votiamo cinque cavalieri della tavola quadrata»), Paola Taverna e Roberta Lombardi.
Ma il malcontento è diffuso a macchia d’olio. Non ci sono solo dissidenti come Elena Fattori e Paola Nugnes. Anche molti lealisti chiedono una discontinuità. Come Alessio Villarosa: «Abbiamo sbagliato poco, ma in quasi tutto». O come Stefano Buffagni, infuriato per quello che (non) è stato fatto per il Nord: «Così non si va avanti, bisogna cambiare rotta. E lo dico da ottobre, non da ora». Un altro deputato che parla chiaro, il primo a uscire allo scoperto, è Emilio Carelli. Che difende la leadership di Di Maio ma attacca «la scellerata gestione del crollo del ponte Morandi e tutti i no pronunciati per partito preso, no Tav, no Tap, no Ilva». Carelli mette nel bilancio negativo anche una «comunicazione non all’altezza» e la gestione di Roma. Nel mirino c’è anche la squadra di governo, a partire da alcuni sottosegretari come Michele Dell’Orco.
Un grumo di malumori che aspetta Di Maio, che in serata incassa un «aiuto» da Matteo Salvini: «Non ha troppi incarichi ed è una persona corretta». Qualcuno vorrebbe chiedere di votare sulle dimissioni, ma una spaccatura non è nel Dna dei 5 Stelle. Per questo è probabile che i più turbolenti provino a convincerlo a fare uno o più passi indietro «volontari».