Come ricordato nei giorni scorsi dal presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, la crescita dell’Eurozona continua abbastanza spedita, ancorché rallentata da incertezze di varia natura che si spera siano di breve periodo.
Lo fa però in un contesto di persistente divergenza nelle performance degli Stati membri, con divari importanti di produttività e competitività che rendono più difficile condurre una politica monetaria adatta alle esigenze di tutti i Paesi che hanno adottato la moneta unica. È per allineare le politiche economiche e di bilancio che è stato istituito il cosiddetto semestre europeo, un ciclo di coordinamento che include le riforme strutturali. Non tratta ovviamente di un attentato alla sovranità nazionale nel determinare le priorità di ciascun membro, ma di un riconoscimento che la cartina di tornasole del successo dell’integrazione sono la crescita e lo sviluppo.
Per realizzare tutto ciò sono indispensabili continui adattamenti e miglioramenti nelle politiche economiche, al di là della legittima discussione sulla stance della politica di bilancio. In linea con la strategia Europa 2020, le infrastrutture occupano ogni anno un ruolo importante nelle Raccomandazioni indirizzate all’Italia dal Consiglio Europeo. È notoriamente un tema su cui si è accumulato un gap, che durante la crisi si è ulteriormente allargato rispetto al resto dell’Eurozona, in termini sia di dotazione, sia di qualità (l’indice del Kiel Institute for the World Economy ci vede al 24esimo posto, dietro la Spagna), e che richiede risorse aggiuntive: secondo il Global Infrastructure Outlook di Oxford Economics, da qui al 2040 serviranno 300 miliardi di euro di fondi extra, una somma che è di svariati ordini di grandezza più grande che negli altri grandi Paesi europei. Va detto che anche i Sustainable Development Goals, che l’Italia ha assunto nel 2015 insieme all’intera comunità internazionale, assegnano priorità alle infrastrutture. Gli Sdgs includono target specifici, per esempio di copertura della banda larga, o di ammodernamento della rete stradale, visti appunto in chiave di benessere collettivo e sviluppo sostenibile.
La XVII legislatura ha visto importanti progressi, in particolare maggiore certezza delle risorse, più efficace utilizzo dei fondi internazionali (si pensi al Piano Juncker gestito dalla Bei che in due regioni emblematiche come Lombardia e Veneto è servito per rinnovare il materiale rotabile delle Ferrovie Nord Milano e ad allargare la A4), miglioramento qualitativo della progettazione e degli studi di fattibilità, condivisione delle opere. Con 20 anni di ritardi, a marzo 2018 è stato introdotto il modello francese del débat public obbligatorio per le grandi opere infrastrutturali e di architettura di rilevanza sociale, aventi impatto sull’ambiente, sulla città o sull’assetto del territorio. Progressi ulteriori potranno realizzarsi dando piena attuazione alla riforma del trasporto pubblico locale, che prevede l’adozione del modello di calcolo dei costi standard in sede di ripartizione tra le Regioni del Fondo per il contributo dello Stato ai costi del Tpl (e l’abbandono progressivo del criterio ormai anacronistico della spesa storica).
Meno unanime il giudizio a proposito del Codice dei Contratti Pubblici, approvato originariamente dal Parlamento quasi all’unanimità. In un Paese dove le pratiche sospette negli appalti sono state a lungo all’ordine del giorno, un controllo molto attento e quasi certosino è indubbiamente necessario, senza però ingessare procedure che necessitano di un certo margine di flessibilità e velocità di esecuzione. La soluzione passa da revisioni periodiche e appropriate che recepiscano le consultazioni trasparenti con le imprese.
È assai probabile che l’imminente semestre europeo, atteso la settimana prossima, ribadirà l’importanza delle infrastrutture per riportare l’Italia lungo il sentiero della convergenza. E sarebbe poco lungimirante considerarlo un diktat dell’eurocrazia, dato che di reti digitali, sistemi di trasporto a basso impatto o gasdotti puliti è fatto il nostro futuro. Anche in decenni non proprio di grande progettualità, qualche progresso è stato fatto: si pensi all’alta velocità (che però inizia a patire del proprio successo anche sulla dorsale Nord-Sud, rendendo imperativo iniziare a pensare al suo rinnovo, senza dimenticare le estensioni verso Genova, Chiasso e Venezia), oppure allo skyline di Milano (trasformato da sei grattacieli più alti del Pirellone che non esistevano nel 2011). Progetti che hanno contribuito alla crescita economica e che, certo non a caso, hanno suscitato l’interesse di investitori internazionali.
Nella XVIII legislatura, che dovrebbe essere della maturità repubblicana, la priorità per le infrastrutture è dare continuità agli sforzi importanti degli ultimi anni, migliorando laddove necessario, ma senza cadere nella velleitaria e narcisistica tentazione della politica dei grandi annunci. I progetti infrastrutturali vanno inseriti in una visione chiara dell’avvenire del Paese (che non può prescindere dal ritorno della crescita della produttività e dalla riduzione delle fratture territoriali), valutati sulla base di criteri rigorosi e trasparenti, costruiti in maniera sostenibile e con l’intervento dell’iniziativa privata (ove conveniente), garantiti da un quadro regolatorio coerente e consistente. Tutto il resto è polemica stantia sulla pelle degli italiani.