Gli ultimi due giorni hanno fatto un po’ più di luce sullo stato dell’economia italiana e rivelano la stessa prospettiva: aumenta il rischio che nel 2019 il debito pubblico continui a salire o al massimo resti stabile rispetto al prodotto lordo (Pil), invece di scendere come prevede il governo. Diminuiscono invece le probabilità che la discesa del deficit dei prossimi anni avvenga realmente. Votati in Parlamento meno di un mese fa, entrambi gli obiettivi stanno vacillando prima ancora che la legge di bilancio venga anche solo varata dal Consiglio dei ministri. Gli investitori internazionali e la Commissione Ue del resto non hanno perso tempo a registrare i nuovi dati. Per loro la prima informazione nuova di questa settimana riguarda il modo nel quale il governo dice di voler limare il deficit in proporzione al Pil dal 2020 in avanti. Prevede una serie di clausole automatiche, almeno in teoria, di aumento dell’Iva e delle accise sul carburante (come a suo tempo anticipato dal Corriere). Ora, sulla base dell’esperienza, sembra bassissima la probabilità che questi ritocchi verso l’alto avvengano realmente quando arriverà il momento. Le clausole di innalzamento delle aliquote per gli anni successivi sono sempre state inserite nelle leggi dai governi della scorsa legislatura — quelli a guida Pd — e alla prova dei fatti sono sempre state fatte saltare.
L’attuale governo M5S-Lega è andato al potere sulla base dell’impegno esplicito a neutralizzare gli aumenti e a non ritoccare più i livelli di quelle imposte. Sembra dunque poco plausibile che entro un anno smentisca se stesso per tentare un’inversione di 180 gradi: più facile che imiti almeno in questo gli esecutivi del Pd e cancelli gli aumenti predisposti. C’è però una differenza, rispetto al passato recente: i governi della scorsa legislatura usavano le clausole per fingere di avere una strategia di eliminazione del deficit fino al pareggio e, quando poi le clausole saltavano, il deficit restava simile a prima. Il governo attuale invece usa le clausole per promettere sostanzialmente di stabilizzare il disavanzo, dunque disinnescando gli aumenti può scardinare i conti. Quanto al debito, il programma attuale prevede una minima diminuzione dello 0,3% sul Pil nel 2019. Tutto però si fonda su un’ipotesi sempre più improbabile di crescita del prodotto. L’economia si è fermata, l’industria è a un passo dalla recessione. In parte è il riflesso della frenata degli scambi nel mondo, dei venti di guerra commerciale che pesano sulla Cina e del momento difficile del settore auto in Germania. In gran parte però è il risultato della paralisi degli investimenti e del «credit crunch» prodotto dall’incertezza sulle intenzioni del governo e dall’esplosione del rischio-Paese sul debito. L’effetto recessivo delle scelte sul bilancio è arrivato prima e più forte del loro presunto effetto espansivo. In queste condizioni è difficile che l’economia cresca tanto nel 2019 da ridurre il debito, in proporzione. Né a rassicurare Bruxelles o i mercati sarà certo l’idea di mandare a regime i nuovi programmi di spesa un paio di mesi più tardi. Quello è ininfluente.