«Temo si voterà dopo l’estate», confidava l’altro giorno a un vecchio amico rutelliano il sottosegretario grillino Spadafora. Al contrario di molti suoi colleghi del Movimento, il responsabile alle Pari Opportunità conosce la politica per averla frequentata, sa che la sopravvivenza di un governo non è legata a un «contratto» e che non si può pensare di rivitalizzare un esecutivo solo annunciando una «fase due». Espressione che peraltro ha portato sempre male. Spadafora ha fiutato l’aria. Certo, bisognerà attendere il responso delle urne, ma il risultato sarà determinante per capire le sorti dei partiti e dei loro leader, più che quelle di Conte.
È vero, malgrado gli scontri in campagna elettorale abbiano prodotto una frattura, logica politica vorrebbe che Di Maio e Salvini continuassero insieme. È l’economia che li può far saltare. In questo senso, le parole pronunciate dal leghista Giorgetti sono inequivocabili. Il problema per il sottosegretario alla Presidenza non è il modo in cui il premier esercita il suo ruolo in Consiglio dei ministri, nella sua analisi non gli fanno velo nemmeno le insinuazioni dei grillini sull’integrità morale dei dirigenti del Carroccio.
Se esorta Salvini a porre «subito fine» al rapporto con i Cinquestelle, è perché sta per arrivare la «grandinata», come ha raccontato ieri a Marco Cremonesi per il Corriere. Ecco il punto del ragionamento che Giorgetti ha fatto al segretario della Lega: un governo che cade per effetto di una crisi politica è preferibile rispetto a un governo che cade per effetto di una crisi economica. Nel primo caso un partito può gestire la crisi, nel secondo ne viene travolto. E siccome le nubi sull’Italia portate dai conti pubblici anticipano una «grandinata», siccome questo gabinetto per molte ragioni non appare in grado di fronteggiarla, «è l’ora di aprire l’ombrello».
Giorgetti vuole mettere in sicurezza il partito, perché a suo dire i segnali d’allarme sono già scattati: li sente nei conversari con le autorità europee, li coglie nei colloqui con rappresentanti diplomatici, li vede nei tabulati del ministero dell’Economia e li annusa sul territorio quando accenna al «malessere del Nord». Non è in discussione il presente, «perché questa situazione non avrà effetti» sul voto per le Europee. A rischio è il futuro, il progetto della Lega, partito dove — per indole — ha sempre collaborato con i segretari che si sono succeduti senza mai remare contro.
Il catalogo è questo, e la rete di relazioni di cui dispone consente a Giorgetti di affermare che «di fronte a una crisi di governo il Colle scioglierebbe le Camere». Si vedrà se Salvini «aprirà l’ombrello», per quanto il vice premier sia conscio del fatto che ormai i cicli politici si sono abbreviati: più che dai sondaggi, se n’è accorto girando per comizi nelle ultime settimane. Chissà se basterà il risultato di domenica a farlo decidere, perché le variabili oggi non calcolabili sono numerose. Due su tutte: quale governo gestirebbe il voto se si sciogliessero le Camere? E in caso di vittoria elettorale, gli verrebbe poi affidato il mandato a formare il governo? Ce n’è una terza, che in realtà è un’incognita posta tra i due passaggi, legata all’azione della magistratura.
Votare o non votare, questo è il problema, mentre cresce la pressione del partito su Salvini. La sua idea, un anno fa, era di sfruttare il «governo del cambiamento» per cambiare il volto del centrodestra, renderlo a propria immagine e somiglianza e poi puntare a palazzo Chigi. Ora a Palazzo Chigi potrebbe arroccarsi con Di Maio, con il rischio però di compromettere il suo disegno. C’è chi scommette che Salvini possa farlo anche per l’ebbrezza prodotta dal potere: l’anno prossimo, per esempio, c’è un’altra messe di nomine in scadenza. Ma Giorgetti potrebbe raccontargli molti gustosi aneddoti sui prescelti ritenuti «fedelissimi»: la storia insegna che in politica la gratitudine è il sentimento della vigilia.