Non si può avere nostalgia di un’epidemia, come non si può averne della guerra. Ma anche chi ha vinto una guerra, come Churchill, ha avuto nostalgia dello stato di emergenza che essa portava con sé, perché consentiva di chiedere al popolo «sangue, lacrime e sudore». La storia ci dimostra che questa nostalgia è perniciosa, e che a volerla prolungare oltre il dovuto si può finire per perdere le elezioni dopo aver vinto la guerra, come accadde proprio allo statista inglese nel 1945.
Ma il ritorno alla normalità è sempre un momento difficile per chi ha vissuto tempi eccezionali. Perfino de Gaulle soffrì di questa sindrome della trincea: liberata la Francia, ma deluso dal tran tran democratico del dopoguerra, si ritirò dalla politica nell’«esilio» di Colombey-les-Deux-Églises.
In tale compagnia, Giuseppe Conte può dunque essere scusato se, annunciando la proroga dello stato d’emergenza, ha dato la sensazione di trovarcisi a suo agio. I critici potrebbero notare che «emergenza» è qualcosa che emerge, un problema che si appalesa all’improvviso, ma purtroppo per noi il Covid-19 è tutt’altro che questo, nel senso che è emerso da tempo, viene da lontano e va lontano, ne conosciamo la pericolosità e abbiamo anche imparato a combatterlo molto meglio. Si potrebbe anzi dire che continuando a proporlo come un’emergenza il premier sottovaluti la capacità mostrata dal suo governo e dalle istituzioni pubbliche italiane nel fronteggiarlo e rinchiuderlo in sacche e focolai. Ciò che sta «emergendo», piuttosto, è la crisi economica e sociale; ma quella non si risolve con i Dpcm.
Qui non è in discussione se il Covid sia oppure no ancora attivo e pericoloso: lo è eccome, visto che ha appena fatto il record mondiale dei contagi in un giorno. E negli Stati governati dai negazionisti, come Usa e Brasile, le cose vanno anche peggio. Il dubbio è se vada ancora affrontato come un’emergenza. È del resto lo stesso governo a dirci che dobbiamo imparare a conviverci, che sarà ancora lunga. Ma se la convivenza è la nuova normalità, come si concilia con lo stato d’eccezione? C’è davvero bisogno di uno stato di emergenza per far rispettare norme già esistenti ma ormai dimenticate, come il divieto di assembramento e l’uso della mascherina?
La nostalgia dell’emergenza può prendere non solo chi si è trovato ad avere in mano le leve del potere, ma anche i semplici cittadini. Al netto del dolore e del cordoglio che ha davvero unito tutti, ci sono tra i sei e gli otto milioni di italiani abbastanza fortunati da avere un lavoro che si può fare a distanza; e che dunque non solo non l’hanno perso, ma riusciranno anche a conciliarlo meglio con la famiglia e il tempo libero. Se sono uomini, non donne costrette a scegliere tra il figlio e il lavoro, e se hanno anche una casa comoda e spaziosa, immagino che molti di loro non siano così ansiosi di tornare alla vita di prima. È probabile che anche i percettori di reddito di cittadinanza, e in generale di sussidi o bonus non legati a un posto di lavoro, temano il momento in cui finirà l’emergenza, perché finiranno anche i soldi. Luglio e agosto si prestano bene all’evidente clima di rilassatezza nazionale. Ma che accadrà a settembre, se non si torna alla normalità?
Ci sono pericolose distorsioni che lo stato d’emergenza inevitabilmente induce. Per esempio: sembra che la salute pubblica si misuri oggi con le variazioni percentuali del bollettino dei contagi, che si applicano tra l’altro a numeri ormai fortunatamente piccoli. Ma se pubblicassero un bollettino quotidiano dei malati di tumore in lista d’attesa negli ospedali scopriremmo che c’è purtroppo una «normalità» non meno grave e precedente all’emergenza. Verrebbe da pensare che l’indifferenza per i 37 miliardi resi disponibili dal Mes nasca proprio da questo strabismo: più facile tamponare l’emergenza che riformare il sistema sanitario.
È apprezzabile che la presidente Casellati abbia deciso di mettere fine alla «invisibilità» della sua Camera (si vede che l’altro presidente, Fico, ritiene invece la sua visibilissima). Ma il problema non è tanto farsi vedere, anche se questa è sicuramente un’attività in cui al nostro premier — non il primo né l’ultimo — piace eccellere. Il guaio è che lo stato di emergenza è l’humus ideale per i rischi di «dispotismo democratico», per quanto benevolo esso possa apparire; perché è la situazione tipica in cui «chi rifiuta di obbedire alla volontà generale vi sarà obbligato, lo si forzerà a essere libero», e per cui si può chiedere a ogni cittadino «l’alienazione totale, con tutti i suoi diritti, alla comunità». Sono, come è noto, frasi tratte da Il Contratto sociale di Rousseau. E spiegano bene perché la piattaforma dei Cinquestelle non si chiami «Voltaire» o «Kant».