Come funzionerebbe l’Italia con un debito pubblico più vicino alle medie europee è quasi inutile chiederselo tanto distante si presenta uno scenario del genere. È probabile però che la differenza principale non verrebbe dalle tasse meno opprimenti o dall’avere più denaro pubblico per l’educazione e la sanità. Tutto questo sarebbe importante, ma resta quasi un dettaglio rispetto alla differenza principale: il Paese non vivrebbe sotto una nuvola nera che minaccia di scatenare tempesta ad ogni cambio del vento, della politica italiana o dell’economia internazionale.
Come italiani — consumatori, contribuenti, e soprattutto imprenditori — siamo così abituati a convivere con la minaccia del debito pubblico che non ci rendiamo neanche più conto di quanto i nostri comportamenti ne sono condizionati. Il rischio di una crisi sempre dietro l’angolo permea le scelte di un’intera collettività nazionale. A maggior ragione è illuminante lo studio che The European House Ambrosetti ha preparato per il Forum che riunirà oggi a Cernobbio alcuni dei protagonisti europei, dal governatore francese François Villeroy de Galhau al ministro dell’Economia Giovanni Tria.
Lo studio di Ambrosetti muove da una constatazione: oggi il debito pubblico italiano è alto come se il Paese fosse appena uscito da un drammatico, prolungato conflitto. Per la precisione è del 22% superiore ai livelli immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale (in rapporto al reddito nazionale) e appena del 18% più basso rispetto ai livelli della fine della Grande guerra. La sola differenza è che il livello di esposizione dello Stato è per l’Italia di oggi il risultato di una sorta di guerra economica con se stessa. Lo mostra la suddivisione delle stagioni del debito che Ambrosetti propone sui decenni recenti. La fase che ha gettato basi molto profonde ai problemi attuali è un decennio al quale oggi curiosamente si guarda con nostalgia, quasi fosse stato un momento d’oro dell’economia italiana: gli anni 80, quando il debito passa dal 56% del governo di Arnaldo Forlani, al 101% con cui si chiude l’ultimo governo di Giulio Andreotti. Un raddoppio in un decennio, o poco più, fino a quando la crisi del 1992 spazza via molte illusioni. In sostanza la crescita degli anni 80, come ha detto di recente il presidente della Bce Mario Draghi, è stata presa in prestito dai decenni successivi. La stiamo ancora pagando. Ambrosetti mostra anche un altro dettaglio che può far riflettere: quell’aumento e l’impennata successiva fino al 1994 fu dovuta moltissimo al costo degli interessi, astronomico visti i tassi ai quali era costretto a indebitarsi il governo con la lira.
Segue poi una stagione di calo del debito pubblico (del 17% per Pil) fra il 1995 e il 2007, quando il peso dell’onere torna attorno al 100% e dunque più o meno ai livelli del 1945. L’Italia ce l’aveva quasi fatta, dodici anni fa aveva finalmente quasi liquidato la pesante eredità degli anni 80. Era sulla soglia di una normalizzazione quando la crisi finanziaria globale la rigetta drammaticamente indietro. Dal 2008 al 2012 il debito sale del 21% del Pil, in parte per il peso degli interessi del passato e per un’altra parte importante (6,3%) perché l’economia crolla. Segue un nuovo aumento limitato negli ultimi cinque anni, malgrado interessi sul debito sempre più bassi, proprio perché l’economia resta molto debole. Ora dunque che siamo in recessione, non è neanche il caso di chiedersi cosa potrebbe accadere se mosse poco accorte di questo o un futuro governo facessero di nuovo salire gli interessi.
Lo studio Ambrosetti mostra che l’Italia non può permettersi di restare in guerra finanziaria con se stessa. Ridurre il debito è il solo modo di rimuovere la nube che da troppo tempo pesa ogni giorno sulle scelte di un’intera nazione.