L’Iva funesta. Ora il problema è quello di disinnescare le clausole di salvaguardia, inserite ancora una volta nella legge di Bilancio del 2019, per scongiurare l’aumento dell’Iva dal primo gennaio del prossimo anno. Dal 22 al 25 per cento per l’aliquota massima. E dal 10 al 13 per cento per quella intermedia. Occorrono 23,1 miliardi. Solo per il 2020. Non sono spiccioli. Un aggravio calcolato nella media di 541 euro annuali per ogni famiglia. Ma per una coppia con due figli a carico si potrebbe arrivare a 756 euro all’anno. Chi eviterà questo rincaro? E, soprattutto, come lo risparmierà agli italiani? L’incognita politica non appare di facile soluzione. Il calendario incalza.
Trascuriamo per un attimo lo spettacolo, anzi l’avanspettacolo estivo, delle infinite giravolte tra i protagonisti della crisi. Soffermiamoci sulle cosiddette clausole di salvaguardia che furono introdotte per la prima volta dal governo Berlusconi IV nel 2011. In quella estate della crisi dello spread, l’Italia, in seria difficoltà sui mercati, trattò con la Commissione europea sui limiti di bilancio, impegnandosi a trovare in qualche modo, entro il 30 settembre del 2012 almeno 20 miliardi. Altrimenti la pressione fiscale sarebbe aumentata. Già allora si parlava di ridurre le cosiddette spese fiscali, deduzioni, detrazioni che sappiamo hanno un valore attuale di 54 miliardi. Il governo cadde nel novembre successivo. L’esecutivo Monti trasformò le clausole in aumenti Iva. Letta alzò l’aliquota massima dal 21 all’attuale 22 per cento. I governi successivi hanno poi reiterato le clausole di salvaguardia (come ha fatto Renzi) o le hanno parzialmente ridotte (Gentiloni). La costante di politica economica di questi anni è stata comunque quella di disinnescarle in deficit. Tanto è vero che l’Unione europea non le ha mai considerate sapendo poi che l’aumento delle imposte non ci sarebbe stato ma il contraccolpo sul disavanzo era assicurato. Anche perché le clausole di salvaguardia sono un unicum. Una particolarità tutta italiana. Un’invenzione bizantina e ingannevole. In realtà sono come dei «pagherò», delle cambiali emesse per spese già fatte. E al momento di doverle onorare, sostituite da altre cambiali. Nuove. A scadenza più lontana. Fossero state sottoscritte per investimenti avrebbero un valore diverso. No, sono state decise per coprire spese correnti. Sono aumenti di tasse posticipati. Né più né meno.
La beffa
L’aspetto curioso — e se volete per certi versi beffardo, da commedia dell’assurdo — è che coloro i quali invocano la necessità di evitare l’aggravio Iva lo motivano come se non avessero avuto alcuna responsabilità nel crearlo. Un’incombenza piovuta dal cielo. Improvvisa. La cui responsabilità magari è da attribuire a occhiuti e insensibili burocrati europei. E allora chi si propone con gesto coraggioso di disinnescarle, di toglierle di mezzo all’ultimo miglio — trascurando il fatto che aumenti il disavanzo — appare come l’immacolato paladino della libertà dal Fisco. Come fosse arrivato da poco, senza alcuna responsabilità per il passato. Sia a sinistra sia a destra. Un liberatore che vorrebbe pure un applauso riconoscente. Quando tutto cominciò nel centrodestra a guida del Cavaliere c’era anche la Lega. Non era quella di Salvini. Ma lui c’era. Votava. Come ha firmato la legge di Bilancio del 2019 che è stato un parto sofferto della maggioranza gialloverde. E lo stesso discorso vale per i governi di centrosinistra, compreso quello a guida Renzi. L’effetto ottico delle clausole di salvaguardia Iva è rivelatore poi di un atteggiamento culturale. Trasversale alle forze politiche. Una caratteristica del costume italiano. Forse anche implicito in un certo modo di considerare il funzionamento dell’economia, nella quale come è noto non esistono pasti gratis. E’ diffusa, in particolare nel nostro Paese, l’illusione che si possa «saltare la fila». Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, scurdammoce ‘o ppassato. Purtroppo non si può. Ma ci si prova. Al momento di iscriverle a bilancio, quelle clausole — come è regolarmente accaduto quest’anno e negli anni passati — era implicito, assodato, che si trattasse di una finta. Un rito senza effetti pratici. Una simulazione giuridica. Dunque, perché preoccuparsene tanto se poi, come già avvenuto in precedenza, l’Iva non sarebbe stata toccata? La crisi politica e il rischio di un esercizio provvisorio, hanno acceso la paura che l’aggravio possa essere reale, persino inevitabile. Peccato non averci pensato per tempo. Le clausole esistono da 2011. Non da ieri. E il conto, nonostante il problema sia stato continuamente rimosso, prima o poi arriva. Sotto forma di un debito che cresce o di investimenti produttivi che non si fanno. Questa coscienza non c’è. Se ci fosse stata, non avremmo avuto in Italia, come in altri Paesi, la particolarità delle «clausole di salvaguardia».
L’esercizio provvisorio è visto come una sorta di Armageddon della finanza pubblica. In realtà non lo è. Potrebbe persino far risparmiare lo Stato, ma certo gli investimenti si bloccano. E gli aumenti Iva potrebbero essere comunque disinnescati da un decreto ad hoc. L’esercizio provvisorio fu molto frequente nella Prima Repubblica quando non esisteva ancora una legge Finanziaria (introdotta nel 1978), non vi erano come oggi obblighi europei e, soprattutto, l’esame preventivo della manovra da parte della Commissione di Bruxelles. Il governo Goria nel 1988 vi fece ricorso per tre dei quattro mesi consentiti anche per difendersi dai troppi appetiti sulla spesa pubblica dei partiti della sua maggioranza. Ma è proprio un tabù l’aumento dell’Iva? In una situazione nella quale rischiamo di andare in recessione, sì. L’imposta è poi regressiva. Colpisce tutti indipendentemente dal reddito. Ma è vero anche che uno spostamento dalle imposte dirette (meno Irpef per esempio) a quelle indirette, è suggerito da molti economisti. Non è uno scandalo. Se anche aumentasse l’aliquota ordinaria, come previsto dalle clausole di salvaguardia, nell’Unione europea non saremmo quelli ad averla più alta. L’Ungheria è al 27 per cento ed è forse un primato che non piace nemmeno ai tanti estimatori italiani di Orban. Siamo invece quelli che l’Iva la evadono di più. Nella Relazione sull’evasione fiscale contributiva del 2018 si legge che il gap, la differenza fra quella che si dovrebbe versare e quello che si versa, oscilla tra i 34,8 miliardi del 2013 e i 36,7 del 2011. Nell’ aprile di quest’anno l’Ocse, nel suo Economic Survey, citando le stime del ministero dell’Economia, ha valutato l’evasione Iva del 2018 in 26 miliardi. Un quarto dell’evasione totale. Sarebbe bastato avere un tasso di evasione in linea con quello europeo e non avremmo avuto la lunga e interminabile stagione delle clausole di salvaguardia. Salvaguardia da chi poi?