Negli ultimi giorni i rendimenti dei titoli di Stato italiani sono crollati sotto una soglia simbolica, per ciò che rappresenta nella nostra storia recente. Oggi il termometro del rischio segna temperature più sopportabili di quelle di inizio maggio del 2018, quando si affacciò la prospettiva di un governo giallo-verde con le promesse di allora: tanto deficit in più sperando di produrre crescita, referendum sull’euro, default verso la Banca centrale europea (che ha comprato debito italiano per centinaia di miliardi tramite Banca d’Italia) e varie altre fughe dalla realtà.
Ma, appunto, per la prima volta siamo tornati finanziariamente su uno spicchio di territorio del mondo di prima, quando quelle idee sembravano fuori gioco. In parte ha aiutato la stessa Bce, segnalando che darà ancora altro sostegno all’economia europea e forse riprenderà a aumentare i titoli di Stato in bilancio con un nuovo ciclo di interventi. Che Christine Lagarde succeda a Mario Draghi a Francoforte è parso a molti rassicurante. Ma se siamo tornati al mondo di prima, è anche perché i risparmiatori italiani e gli investitori internazionali iniziano a pensare che la stagione delle promesse impossibili sia finita. Quelle idee — si spera nel mercato — per il momento sono uscite di scena.
U n indizio è che in giugno per la prima volta da più di un anno la posizione dell’Italia in Target2, il sistema di pagamenti della Bce, è migliorata di 39 miliardi. Un po’ di denaro dall’estero torna nel Paese, proprio perché chi lo manovra spera che certe idee presenti nel governo o nella maggioranza siano finite fuori gioco.
I miniBot, minaccia di valuta parallela all’euro, hanno ballato lo spazio di un mattino. Le proposte di assalto politico della Banca d’Italia sembrano (per ora) su un binario morto. Per la seconda volta in sette mesi il governo si è persino piegato alle richieste di Bruxelles e ha limato il deficit rispetto ai propri piani, per un totale di una ventina di miliardi se si sommano gli episodi di dicembre e di luglio. In modo limitato ma indicativo, governo e maggioranza hanno persino accettato di congelare spese per circa due miliardi (parte all’Istruzione, parte alla Difesa, ma soprattutto incentivi e sostegni alle imprese) benché l’economia sia ferma. In sostanza, pur di far tornare i conti, il governo ha stretto la cinghia in piena fase di stagnazione del Paese: una versione più o meno diluita di quella stessa austerità che i partiti di governo demonizzavano fino a ieri.
I mercati ne hanno concluso che i sovranisti abbaiano ma non mordono, almeno nelle questioni di bilancio. Ora si aspettano che anche la cosiddetta «flat tax» alla fine si dimostri un dispositivo leggero e il governo in autunno eviti salti nel buio. Vedono che M5S, partito di maggioranza relativa, ormai è nella maggioranza in Europa. Ma in un certo senso questi eventi certificano soprattutto l’affermarsi della visione realista del premier Giuseppe Conte, del ministro dell’Economia Giovanni Tria e di quello degli Esteri Enzo Moavero.
Resta solo da capire un dettaglio, quale che sia la tenuta del governo dopo le fibrillazioni degli ultimi giorni. In ritirata il vecchio (almeno per ora), non è chiaro quale sarà il nuovo approccio dell’Italia nel quadro europeo mutato con l’arrivo di Ursula von der Leyen a Bruxelles. Perché qualcosa deve pur succedere: il Paese ormai viene da 15 mesi di crescita zero o negativa, caso unico in Europa, e la Banca d’Italia nell’ultimo bollettino economico fa capire che anche l’ultimo trimestre è stato a marcia indietro. Tanti italiani soffrivano prima di questo governo e continuano a farlo, come dimostra il continuo aumento del credito con consumo — più 50 miliardi dal 2015 — per sbarcare i fine mese.
Banca d’Italia mostra anche che nell’ultimo anno tutte le categorie di imprese — meno le più grandi — hanno fortemente tagliato gli investimenti. Nei sondaggi della Banca centrale gli imprenditori rispondono che a bloccare le loro decisioni è soprattutto «l’incertezza politico-economica». Niente di tutto questo contribuirà a risolvere il problema fondamentale dell’Italia e del potere d’acquisto degli italiani, che il Corriere ha ricordato di recente: oggi un’ora di lavoro nel Paese in media produce tanto quanto vent’anni fa, mentre in Germania due terzi di più e in Francia o Spagna un quinto di più.
Siamo fermi, inchiodati su noi stessi, ma la novità è che mai come oggi i leader europei capiscono che questa è la chiave di lettura: l’Italia non ha squilibri finanziari da gestire con l’austerità, ma un enorme problema di crescita da curare liberando l’economia. Questo vuol dire Ursula von der Leyen quando invita a non confondere l’Italia con la Grecia: non possiamo perseguire politiche di aumento del debito — spiega la tedesca — ma conta moltissimo avere una proposta credibile per spezzare il sortilegio della crescita zero. C’è molto lavoro da fare sull’amministrazione, sulla miriade di municipalizzate in perdita che non chiudono mai, sugli ostacoli alla libera iniziativa, la giustizia lenta e incerta, l’università e la ricerca senza risorse: temi noti, eppure usciti dall’agenda del Paese.
Addossare la crescita zero all’austerità ormai è una scusa pigra, perché l’Europa non la chiede più. Chiede solo di limare il deficit pian piano. Semmai, von der Leyen sarebbe felice di stringere un patto con l’Italia sulla base di idee credibili per una crescita sostenibile. Tramontate le idee del primo anno, ai partiti di governo si presenta un’occasione d’oro per svilupparne altre. Speriamo non la sprechino.