«Non c’è mai stato, nella Storia, un momento migliore per essere un lavoratore con competenze speciali e la giusta formazione: con le tecnologie oggi disponibili, queste persone possono creare e attrarre valore in ogni campo». Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, studiosi del «Center for digital business» del Mit di Boston, nel loro libro La nuova rivoluzione delle macchine (Feltrinelli, 2015) divenuto un classico nel dibattito sul futuro del lavoro, incoraggiano il lettore in cerca di una direzione ma, subito, lo mettono in guardia. «Tuttavia – ecco l’avvertimento – non c’è mai stato un momento peggiore per essere un lavoratore con competenze e abilità ordinarie: robot, computer e altri dispositivi digitali stanno acquisendo queste capacità di base con un ritmo frenetico e inarrestabile».
Nelle rivoluzioni si vince o si muore. In questa prospettiva, i robot che rubano lavoro agli uomini sono solo «dolori di crescita di un’economia che si sta radicalmente riorganizzando», per dirla con le parole di Brynjolfsson. Nella fabbrica 4.0 la crescita ci sarà, anche in termini occupazionali, ma solo per i lavoratori con «competenze speciali». Lo dicono le statistiche.
In Italia, tra il 2019 e il 2021 le sole imprese del settore Ict (tecnologie dell’informazione e della comunicazione) avranno bisogno di quasi 45 mila tecnici. Un fabbisogno che il mercato difficilmente riuscirà a soddisfare. La previsione è frutto di un’elaborazione Confindustria (area Lavoro, welfare e capitale umano) su dati Istat e Unioncamere. E trova solide conferme anche in altre fonti. Secondo l’ultima edizione dell’«Osservatorio delle competenze digitali» (condotto da Anitec-Assinform, Aica, Assintel e Assinter Italia), la stima del fabbisogno del settore Ict sale a 62.359 lavoratori, nello scenario più conservativo, e fino a 88.358 in quello più spinto. L’Osservatorio calcola che i lavoratori più ricercati (e meno trovati dalle aziende) saranno sviluppatori (49,1%), consulenti Ict (16,3%), analisti di sistema (7,5%) e specialisti in media digitali (6,1%). Seguiti da specialisti di big data, machine learning, cybersecurity e intelligenza artificiale.
Il ritardo degli Its
«Le competenze digitali sono l’unico investimento strategico per il lavoro che cambia», spiega Laura Di Raimondo, direttore Asstel, l’associazione che riunisce le imprese della filiera Tlc. Una sfida che si può affrontare solo «ripensando gli attuali modelli educativi: oggi per molte professioni emergenti non esistono percorsi formativi adeguati».
Il riferimento è al potenziale inespresso degli Istituti tecnici superiori (Its). Il solo canale di formazione terziaria professionalizzante presente in Italia – nato nove anni fa per formare tecnici altamente specializzati in aree tecnologiche strategiche – non è mai decollato. Gli allievi italiani iscritti agli Its sono meno di 20mila, contro i quasi 900 mila studenti delle Fachhochschule tedesche e i 250mila delle scuole francesi. Tutto questo nonostante l’80% dei diplomati Its lavori a 12 mesi dal diploma (dati Miur), percentuale che sfiora il 100% nel Nord Est, dove proprio ieri la Corvallis di Padova ha annunciato la nascita del primo Its ospitato all’interno di un’azienda (si veda l’articolo).
Competenze a prova di futuro
Nell’epoca della trasformazione digitale la formazione «deve essere continua – aggiunge Di Raimondo – per dare sostenibilità sul lungo periodo al capitale umano, dotandolo di un mix di competenze in evoluzione e, proprio per questo, a prova di futuro». Anche in questo caso le statistiche possono orientare le decisioni. Secondo una ricerca appena condotta da Bynata per ServiceNow su 1.820 professionisti europei assunti a tempo indeterminato in aziende con più di 500 dipendenti, dopo che queste hanno adottato alti livelli di automazione, il 62% dei lavoratori si dichiara più soddisfatto, il 71% riporta maggiore soddisfazione dei clienti, il 72% ammette un miglioramento della produttività e il 62% dichiara di avere più tempo per le attività creative.
Generazione «digital maker»
Nella filiera rappresentata da Asstel, cuore del settore italiano dell’Ict, negli ultimi 4 anni i dipendenti con un’età maggiore di 55 anni hanno raddoppiato la loro quota, passando dal 6 al 12% della forza lavoro. Anche a causa dell’aumento dell’età pensionabile previsto dalla Riforma fornero. «Per il nostro settore è decisivo sviluppare iniziative di reskilling e trasformazione professionale», spiega Di Raimondo, che ricorda l’importante sperimentazione avviata con il “Contratto di espansione” introdotto dal decreto Crescita: «Uno strumento – spiega – con cui sarà possibile offrire prospettive a giovani e percorsi di aggiornamento o di uscita sostenibili a chi è nel mondo del lavoro da molto tempo».
Ogni rivoluzione industriale ha richiesto, per dare frutti, anche una mutazione della forza lavoro e del suo modo di pensare l’azienda, di partecipare alla produzione, di immaginare beni e servizi. Come quando, circa 120 anni fa, le fabbriche americane iniziarono a elettrificare le proprie linee di produzione, contribuendo al compimento della seconda rivoluzione industriale. In quelle fabbriche, però, la produzione non crebbe per i successivi 30 anni. Un tempo sufficiente affinché i dirigenti che avevano introdotto quell’innovazione andassero in pensione. Quelle persone avevano sostituito le macchine a vapore con motori elettrici, ma non avevano riorganizzato le fabbriche per sfruttare i vantaggi dell’elettricità. Lo fece la generazione successiva, che oggi chiameremmo la generazione dei «digital maker». Se la scuola deve essere capace di formarli, le imprese devono essere in grado di attrarli e non farli scappare.