Italia ferma. Italia in stagnazione. Lasciamo perdere i proclami da balcone che andavano di moda un anno fa. «Cresceremo anche più del 2% nel 2019», prometteva l’allora vicepremier Matteo Salvini. «Sarà un anno bellissimo», pronosticava Giuseppe Conte 1º. Esternazioni oscurate dal proprio anacronismo. Oggi sappiamo che il 2019 si è chiuso nel segno della stagnazione, come aveva inutilmente avvertito Bruxelles, con una insignificante spolverata di Pil: appena lo 0,2%.
Le stime da correggere
La musica si ripete per il 2020, nel senso che ci attende un’altra correzione di stime, anche se non nelle proporzioni del precedente strafalcione previsionale. Molti istituti di ricerca sono infatti pronti a scommettere che la crescita del 2020 sarà la metà di quella immaginata nella primavera scorsa con l’ultimo Documento di economia e finanza (più 0,8%) e quattro volte meno di quella preconizzata a fine 2018 (più 1,6). La Commissione Ue, l’Ocse, Standard & Poor’s e la Confindustria non vanno al di là del +0,4%. Fmi, Bankitalia, Prometeia e Moody’s si spingono fino allo 0,5%. Il governo invece accredita una crescita dello 0,6%. Stima confermata dagli economisti di Ref Ricerche, che in una analisi preparata per Repubblica appaiono meno pessimisti di altri loro colleghi sulle stime del commercio mondiale: ci sarà a loro giudizio un «leggero rafforzamento delle nostre esportazioni», che torneranno a dare il contributo maggiore al pur esiguo aumento del Pil. Aumento che in ogni caso resta solo un pallido surrogato del promesso exploit.
La sofferenza dell’industria
Il drastico ridimensionamento delle aspettative di crescita nasce non solo dai dati Istat di novembre, ma più recentemente dalle risposte che a dicembre (così come ogni mese) 400 direttori degli acquisti (sia nell’industria sia nei servizi) hanno dato in un sondaggio sulla situazione delle proprie aziende: produzione, ordini, scorte e prezzi, occupazione. Dai loro giudizi si ricava un indice tra i più attendibili: il Pmi, Purchasing managers’index. Se supera 50 vuol dire che la maggior parte delle risposte registra un miglioramento; se resta sotto, c’è un peggioramento. A dicembre l’indice del settore manifatturiero è crollato a 46,2 (era quasi 48 ad agosto); quello dei servizi è invece salito a 51,1. Insomma, è decisamente l’industria a soffrire di più.
Il terziario, invece, regge piuttosto bene e garantisce quella crescita dei posti di lavoro che l’Istat continua a certificare: 41 mila occupati in più a novembre, 285 mila in un anno. Ma si tratta di lavoro povero, poco produttivo, mal pagato e in molti casi limitato ad un part time imposto ai lavoratori. Si spiega così lo strano strabismo dell’economia italiana, che vede da una parte aumentare l’occupazione e dall’altra ristagnare il Pil. Il risultato, come sostiene Bankitalia nell’ultimo Bollettino, è un quarto trimestre fermo, che tuttavia, secondo gli economisti di Via Nazionale, nasconde un ulteriore rischio: quello che la debolezza dei settori manifatturieri finisca per contagiare i servizi. In questo caso la stagnazione si trasformerebbe in recessione.
Il crollo tedesco
Nel frattempo, le sofferenze dell’industria registrate dai 400 manager non fanno che rafforzare i segnali negativi rilevati negli ultimi mesi da Istat e Abi: produzione in flessione, prestiti in frenata, export in ripiegamento soprattutto fuori dalla Ue, consumi e investimenti fiacchi. Il vero grande shock è rappresentato dal crollo tedesco. Un dato su tutti per capirne la portata: in Germania la minore produzione di auto ha frenato la crescita del Pil di tre quarti di punto. Inevitabili le ripercussioni per l’Italia, soprattutto per le consegne di macchine utensili, robot e automazione. Per i loro costruttori, associati nell’Ucimu, non è un caso che la crisi della Germania (secondo mercato di sbocco per il settore) coincida con l’interruzione nel 2019 di un ciclo produttivo positivo che durava da 5 anni.
Ciclo su cui pesa non solo la debolezza della domanda estera ma in misura anche più forte la fiacchezza di quella interna. Il risultato è una previsione per quest’anno di ulteriori cali della produzione (meno 8,4%), dell’export (meno 5,3%) e della domanda nazionale (meno 10,1%). Eppure, per i produttori di macchine utensili questa sonora battuta d’arresto non sembra costituire un dramma, perché i livelli di partenza ai quali il settore era arrivato nel 2017-2018 erano da autentico record: «Un record al quale aveva contribuito — spiega l’Ucimu — l’effetto dirompente delle misure industria 4.0 introdotte dai governi di allora».
Le tensioni internazionali
Insomma, la punta più avanzata dell’industria italiana sembra avere ancora buoni margini di manovra, avendo proceduto di recente ad un processo di rinnovamento che tuttavia ora andrebbe completato per meglio resistere alle pressioni e ai rischi dello scacchiere internazionale. Scacchiere dove non uno ma tre tipi di guerre — commerciali, valutarie e militari — rischiano di ripercuotersi su non pochi settori. A novembre, rileva l’Istat, le nostre esportazioni verso Cina, Stati Uniti e Paesi Opec hanno subito crolli percentuali a due cifre. C’è però chi ritiene che, almeno sul piano economico, le tensioni si stiano attenuando, a partire dalla tregua cino-americana, e che gli scambi saranno meno deludenti del previsto. Di qui la previsione, da parte di Ref Ricerche, di un lieve recupero delle esportazioni. Quel che continua a mancare, tuttavia, è un significativo apporto della domanda interna: consumi e investimenti. «I timidi segni positivi per le costruzioni — spiega l’Ance nel suo osservatorio congiunturale — non possono essere letti come un’inversione di tendenza» per un settore che potrebbe tornare ad essere uno dei più forti volani per il Pil e che invece è «ai minimi storici». I consumi familiari, dal canto loro, volano bassi: complici un reddito disponibile solo in lieve recupero e l’incertezza che spinge le famiglie a risparmiare. Di qui il flop dello scorso Black Friday e la recente forte ripresa dei discount. Insomma, dal fronte interno niente di nuovo.