Dobbiamo deciderci ad aggiornare la fotografia buonista della società italiana. Lo chiede il Censis che pure ha raccontato negli anni con continuità e compiacimento la capacità adattiva degli italiani, il ventre molle che li portava ad essere protagonisti riluttanti della modernizzazione del Paese. Proprio per questa sottolineatura Giuseppe De Rita ha attirato su di sé l’accusa di essere indulgente con le pigrizie italiane, se non addirittura di giustificarle. Ebbene nel Rapporto 2018 la fotografia buonista va in soffitta e spunta la parola «cattiveria», indicata come sostantivo ricco di significati e denso di contenuti sociali.
La pancia del Paese da indolente è diventata cattiva e siamo davanti a una trasformazione antropologica degli italiani che non sono più la «brava gente», hanno preso invece a moltiplicare egoismi, chiusure e invidie.Argomenta il Rapporto: «Sono diventati normali opinioni e comportamenti che erano indicibili solo fino a qualche tempo fa». E ancora: «Le diversità sono percepite come pericoli da cui proteggersi e la dimensione culturale della insopportazione degli altri sdogana ogni sorta di pregiudizi, anche i più passatisti».
È francamente difficile non condividere la fenomenologia di cui sopra, la si può rintracciare quotidianamente nelle cronache nazionali ma al momento di indagarne le motivazioni il Rapporto Censis scarta e evita una lettura tutta politica e forse scontata. L’innesco della cattiveria non viene prevalentemente dall’alto, dall’azione consapevole e cinica di soggetti politici come Lega e Cinque Stelle, la radice di questa trasformazione va cercata in basso, negli orientamenti popolari più profondi. La politica e le sue retoriche — dice il Censis — rincorrono, riflettono o semplicemente provano a compiacere un sovranismo definito «psichico» in quanto si è installato nella testa e nei comportamenti degli italiani. Ma se la radice non è politica dove ha preso alimento la svolta della cattiveria? La prima risposta rimanda all’economia e alla materialità della crisi con il suo carico di esclusione, sofferenze e privazioni. La fenomenologia anche in questo caso è ben nota e riporta al miraggio di una ripresa durata troppo poco, al ristagno del Pil, ai consumi piatti, allo stop degli investimenti e persino dell’export e soprattutto rimanda alla mancanza di lavoro. È stato dunque un pervasivo sentimento di solitudine sociale ad alimentare un sovranismo spicciolo che vede l’ingiustizia e la disuguaglianza tutte originate dalla sottrazione di potere nazionale. E che si nutre di un facile capro espiatorio: l’immigrazione. Più i cittadini italiani si sentono fragili più la loro contrapposizione alla società aperta si fa radicale e le opinioni sul fenomeno migratorio registrano un’impennata della diffidenza.
La seconda risposta ci porta alla relazione che si è stabilita tra il popolo del rancore, il suo peso gettato nelle urne e l’auspicato cambiamento. Il Rapporto non è tenero con la maggioranza gialloverde guidata da Giuseppe Conte non perché ne sottolinei l’incompetenza e l’improvvisazione ma perché dà già per scontato che il cambiamento miracoloso promesso da Matteo Salvini e Luigi Di Maio resterà al palo e la successiva disillusione non produrrà certo il ritorno agli equilibri politici ex ante. Renderà, invece, ulteriormente cattivi gli italiani che «sono pronti ad alzare ulteriormente l’asticella, sono disponibili persino a un salto nel buio». La metafora è di quelle forti ed evoca il peggio.