Mai come oggi oscilla il pendolo tra politica ed economia. Con strabismo accelerato abbiamo guardato, al Sud, la mappa elettorale dei cinque stelle, con il loro reddito di cittadinanza e poi le inchieste e i reportage sul deserto del lavoro. Subito dopo appare il verde leghista del Friuli Venezia Giulia e tutti a capire Monfalcone, la rossa di un tempo, raccontando lo iato tra Fincantieri con le sue commesse globali e lo sfarinamento del lavoro in una miriade di imprese di subappalto che mettono al lavoro le etnie del mondo.
I più avveduti, per rimanere a Nord, scavano nell’economia per dare segnali alla politica raccontando dell’asse pedemontano Torino-Trieste e della via Emilia, con Milano e i suoi numeri iperbolici del Salone del Mobile, l’ottimo successo di Vinitaly a Verona, punta avanzata dell’agricoltura di qualità, e la tenuta competitiva delle imprese con il racconto dei cinquecento campioni grandi artigiani e innovatori che si sono agganciati alla rete del produrre per competere.
C’è poi sempre chi, come Cassandra, ti ricorda che il pendolo dell’economia suona anche i rintocchi brusselliani dei vincoli e delle clausole europee. Ci sono poi anche i tanti sacerdoti del futuro che parlano dell’algoritmo a cui basterebbe agganciarsi con una brillante startup. Ma poi in tanti si ritrovano messi al lavoro con braccialetto e biciclette nella sharing economy dei consumi e dei servizi. I miei microcosmi sono certo poca cosa: un tentativo di mettere in mezzo alle oscillazioni del pendolo i territori e la società.Sapendo che entrambi sono in preda alla metamorfosi tra il “non più” e il “non ancora” dell’economia e della politica.
Le prime fibrillazioni territoriali a Nord nel tardo novecento rimandavano al “non più” di un’epoca al tramonto che fissai in tre nostalgie. Apparvero allora gli orfani del fordismo, prima a Torino nella Fiat, poi all’Alfa di Arese e poi a Marghera. Che cosa ha oggi di fordista la grande fabbrica se non un “non ancora”, realizzato nell’evoluzione del ciclo della grande impresa cui guardano con rimpianto del conflitto ordinatorio tra capitale e lavoro gli operai a Monfalcone o all’Ilva di Taranto? Poi apparvero gli stressati del capitalismo molecolare, della fabbrica diffusa al lavoro nel ciclo della subfornitura. Anche loro guardavano con nostalgia ai dazi e alla svalutazione competitiva di fronte ai primi bagliori della globalizzazione. Poi chi rimaneva in preda allo spaesamento del rimanere senza Paese, nella dissolvenza delle comunità di paese inglobate culturalmente e non solo nel modello delle città infinite con la loro sequenza di casette a schiera e capannoni. Se si volesse approfondire l’analisi socio-politica scavando in questo settore nostalgico di ciò che non è più, vi si ritrova la crisi dei ceti medi e gli albori del primo leghismo rancoroso verso Roma con la sindrome di invasione per ciò che veniva da fuori, migrazioni comprese, da un altrove che non era il “non ancora” che si dispiegherà poi nel nuovo secolo.
Oggi per capire è al “non ancora” in gestazione che occorre guardare. Al capitalismo delle reti con i suoi quartieri generali di finanza, transnazionali e internet company che disegnano nodi di reti a base urbana e alla Milano a cui tutti guardiamo per capire che è, nei fatti, il nodo di rete europea e globale del grande Nord. Quanto questo modello innerverà con Alta Velocità e reti soft della conoscenza le città che fanno corona sull’asse pedemontano ed emiliano, è la questione che rimanda alla materialità di porti, aeroporti, università, poli di ricerca, grande distribuzione reale e virtuale e banche. E se guardiamo a Nord Est partendo da queste ultime, si capisce che il tutto non è certo un pranzo di gala. Molto dipenderà dal secondo cerchio del capitalismo intermedio in evoluzione, quello dei distretti, delle nuove imprese 4.0 e dei 500 campioni raccontati dai narratori dell’evoluzione manifatturiera. Che chiama in causa e interroga le tante città intermedie del nuovo triangolo industriale che sono la vera ossatura diffusa che fa di Milano un nodo di rete globale.
La questione non riguarda solo l’intreccio necessario nell’ipermodernità tra reti di città smart e il capitalismo intermedio da 4.0. Altrimenti non si capirebbe l’oscillazione del pendolo della politica. Per capire occorre guardare a ciò che resta dentro e fuori, nelle città, Milano in primis, nelle periferie, nel contado degli spaesati, della nuova geografia urbana-regionale. E quelli che restano fuori dall’enclave dei 500, 1.000 innovatori internazionalizzati che vanno nel mondo. A costo di essere banale dopo questo fantasmagorico quadro del grande Nord in metamorfosi, occorre guardare per capire alla evoluzione dei nostalgici del non più, evocando categorie tutte del ‘900, da vite minuscole chiedendosi che fine hanno fatto gli operai, gli artigiani, i commercianti, con l’aggiunta di un’altra categoria indistinta come i giovani che, virtualmente, “pedalano in bicicletta” verso il futuro. Oltre a Fincantieri e Ilva, già citate per capire, occorre ricordare che anche a Nord sono tante le imprese che in questa selezione verticale hanno chiuso i battenti.
Così se dentro i cancelli il tema è il welfare aziendale, formazione e innovazione, green economy, fuori la crisi ancora morde. Tanti sono i commercianti minuti che hanno chiuso, che non hanno fatto il salto alla vetrinizzazione del commercio. Chi non ce l’ha fatta ha letto i flussi normativi tendenti alla liberalizzazione come operazioni per favorire la grande distribuzione prima e l’e-commerce oggi. Poi ci metto gli artigiani, che in Lombardia tra 2008 e 2017 hanno in parte cambiato pelle con un taglio secco di 25.000 imprese, quasi tutte appartenenti ai settori storici del manifatturiero, mentre nei servizi un nuovo tipo di lavoro artigiano cresceva di oltre il 30 %, soprattutto a Milano dove nel 2017 un quarto delle imprese artigiane è di servizio e un altro 7% sta nel commercio-turismo. Di fronte alle scosse telluriche dovute alla caduta di vecchi ceti e al sorgere di nuovi e al conflitto tra culture localiste/sovraniste e culture globaliste, o mettiamo al centro (e in mezzo) una cultura di smart land capace di includere, oppure temo che dovremo abituarci a una stabile instabilità.