È arrivato a 10 miliardi il monte-investimenti delle imprese italiane in beni strumentali, attivato grazie al piano Industria 4.0. E, notizia assolutamente inedita, le Pmi non sono rimaste al palo. Un terzo delle risorse investite viene dalle aziende sopra i 250 dipendenti, un altro terzo da quelle tra 50 e 250 addetti e il restante da realtà produttive piccole e piccolissime. Sono questi i dati forniti da un’indagine sull’utilizzo dell’iper-ammortamento realizzata dal Centro Studi Confindustria in collaborazione con il Mef e contenuta nel Rapporto «Dove va l’industria italiana», presentato ieri a Milano in Assolombarda. La considerazione chiave dalla quale è partito nella sua relazione il capo-economista di Confindustria, Andrea Montanino, riguarda proprio la trasformazione digitale individuata come la leva da azionare per produrre sviluppo e difendere il vantaggio competitivo dell’industria italiana. E questo vale persino per i settori «leggeri» dal made in Italy. Se le cose stanno così un processo di questo tipo non può vivere di soli incentivi ma abbisogna di una cultura del digitale che ancora non c’è e che la manifattura è chiamata ad elaborare in tempi stretti. Una cultura non solo «macchinista» ma che, ad esempio, sappia dare risposte anche alla mutazione del lavoro che spacca l’universo operaio in almeno tre tronconi diversi.
Il Rapporto del Csc tributa un ampio riconoscimento alla vivacità dell’industria italiana dei macchinari decisiva nel raddoppio del saldo commerciale realizzato in questi anni. Il peso dei macchinari nell’export è del 19,1%, precede nettamente il made in Italy «estetico» (mobili, tessile, abbigliamento, calzature) al 14,6% e ha propiziato quella che Montanino chiama «la via alta del riposizionamento del sistema manifatturiero italiano». Ma se le cose stanno così bisognerebbe dotarsi di una politica industriale ad hoc, perché in un mondo in cui niente resta fermo l’interesse dei gruppi stranieri, cinesi in testa, nei confronti dei nostri gioielli della meccanica è sicuramente una variabile con la quale fare i conti.
Un dato preoccupante che invece emerge dall’indagine sull’iper-ammortamento (condotta sui dati delle dichiarazioni fiscali) riguarda il settore dell’automotive. Rimasto decisamente indietro negli investimenti 4.0, addirittura dietro l’industria della carta e quella della stampa. Ora, siccome il mondo dell’auto è alle prese con (irrisolti) problemi rappresentati dalla transizione all’elettrico, constatare che non si sono utilizzati gli incentivi di Industria 4.0 per portarsi quantomeno avanti crea più di un interrogativo. Qualche tempo fa la Confindustria aveva lanciato da Torino una sorta di vertenza auto nei confronti del governo che successivamente però si è smarrita. Il dato deludente sull’iper-ammortamento forse può spingere a resettare il percorso e ripartire.
Posto che il Rapporto sembra porre le basi di un aggiornamento delle scelte confindustriali è interessante anche sottolineare il peso assegnato alla domanda interna. «Il rallentamento del commercio mondiale impone a tutti i sistemi economici di tornare a fare affidamento più che in passato sul mercato domestico». Ora “domestico” lo si può anche tradurre come “europeo” ma ciò non toglie che in questo modo Confindustria segnala la necessità di una riflessione sul peso della domanda interna italiana, riprendendo uno stimolo lanciato di recente da Innocenzo Cipolletta. Si può pensare, come sostiene il governo, che il rilancio possa venire da quota 100 e reddito di cittadinanza? Non sembra proprio, mentre è sicuramente più sensato pensare di legarlo alla riduzione del cuneo fiscale.